La montagna incantata
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Al di là di un genere letterario...
È veramente arduo parlare brevemente di un’opera come “La montagna incantata” di Thomas Mann, recentemente rivista e pubblicata in Italia con un altro titolo, più fedele a quello originale, “La montagna magica”, in una nuova veste filologica, più adatta agli esperti. E dal costo proibitivo.
L’edizione Corbaccio è quella classica, nella magnifica traduzione di Ervino Pocar che fa gustare pienamente la grandezza dello scrittore di Lubecca.
L’opera di Thomas Mann è titanica: otto romanzi, un dramma, più di quaranta racconti, un breve poema, innumerevoli saggi e recensioni. Uno scrittore veramente prolifico, le cui opere spesso sono intrecciate alla biografia che diventa chiave della sua scrittura.
“La montagna incantata “infatti nasce dagli appunti che lo scrittore raccolse nel 1912 durante il soggiorno della moglie, malata di petto, nel sanatorio-albergo di lusso nel Davos, lo stesso luogo in cui si svolge la storia di Hans Castorp, protagonista del romanzo. Questi appunti , dopo l’interruzione dovuta allo scoppio della prima guerra mondiale, vennero ripresi nel 1919 e lievitarono fino ad assumere la forma definitiva che venne pubblicata nel 1924.
C’è da ricordare che “La montagna incantata” esce subito dopo la pubblicazione del racconto “La morte a Venezia” e il confronto è lampante: i temi della malattia, della decadenza, dell’erotismo e del tempo sono cruciali e vengono approfonditi.
Stiamo parlando di un romanzo difficile da definire, non è soltanto un romanzo filosofico oppure storico, ma potremmo dire che, per la ricchezza di contenuti e di tematiche trattate, “La montagna incantata “ va ben oltre il genere!
Come comincia la storia?
Noi sorprendiamo all’inizio un giovane, Hans Castorp, fresco laureato in ingegneria - già assunto da una ditta che si occupa di cantieri navali - che da Amburgo, città natale, sta viaggiando su un treno a vapore diretto nel Davos, in Svizzera, per far visita a suo cugino Joachim, da un anno ricoverato nel Berghof, il famoso sanatorio-albergo, per guarire dalla tubercolosi.
Hans ha intenzione di sostare lì tre settimane, sia per riposare sia per passare un po’ di tempo col cugino...ma le settimane diventano poi mesi ed anni.
Eh sì, sembra che quando si arrivi al Berghof anche i sani si ammalino: l’aria è rarefatta, nevica anche ad agosto e qualche linea di febbre è sempre in agguato.
Confessiamo però che lasciare quel meraviglioso sanatorio non è affatto facile e richiede una grande motivazione a scendere in pianura. Al Berghof si è coccolati con lauti pranzi, doppia colazione (i pranzi sono ricchi e Mann non si risparmia nelle descrizioni all’inizio), si fanno passeggiate nel verde, si pratica la cura del riposo su ottime e comodissime sedie a sdraio sul terrazzo, con o senza coperte di cammello, a seconda delle stagioni e dell’ora. C’è di più: col tempo ci si affeziona ad alcuni personaggi, con cui si intavolano profonde ed ardite discussioni e dibattiti di idee e...ci si innamora.
È una vita sospesa dentro ad una grossa bolla dove si guarisce, a volte si muore: una realtà parallela a quella di laggiù. L’opposizione laggiù/quassù è martellante a volte ed è pregna di profondi significati. Un mondo sospeso nel tempo, quasi dormiente rispetto a quello che succede in pianura, fino a quando “il colpo di tuono” della grande guerra mondiale costringerà quasi tutti a svegliarsi, a fare le valigie e, per i giovani, come Hans Castorp, a imbracciare il fucile.
Il tempo per chi deve curarsi al Berghof è estremamente dilatato e coloro che come Joachim, cugino di Hans, sentono il dovere di essere attivi e produttivi laggiù in pianura, è quasi una agonia, una “illimitata monotonia”, anche se piacevole per certi versi poiché la buona compagnia, i lauti pranzi non mancano. Castorp invece, partito con l’intenzione di sostare solo tre settimane, sicuro di essere sano, si accorge invece di aver necessità di riposo e quando, dopo un anno di permanenza il ‘consigliere aulico’ Behrens gli dice è guarito e può tornare a lavorare, si rifiuta e rimane altri sei anni nel sanatorio-albergo.
Nella storia si incontrano personaggi coltissimi ed affascinanti tra cui, uno dei primi a comparire sulla scena, è Lodovico Settembrini, che Castorp con un moto prima di fastidio e poi di affetto lo chiamerà “suonatore di organetto “, “lo zampognaro della pace” e che farà del protagonista il suo “pupillo della vita” dandogli lezioni di etica, di filosofia.
Oltre metà del libro compare una figura ambigua, passionale, coltissima, il gesuita massone e marxista Naphta, in eterna combutta con Settembrini fino ad un epilogo che non vi svelo...
Abbiamo una bellissima donna, dai tratti asiatici, dal cognome francese, Madame Chochat di cui si innamorerà Castorp e che andrà via dal sanatorio e, come consuetudine, vi ritornerà. Forte tensione erotica, una storia difficile, considerati i costumi molto liberi di questa russa “ammodo” (scoprirete voi perché esistano nel romanzo “i russi ammodo” e “i russi incolti”) e la sua condizione di donna sposata. Interessante notare anche in questo romanzo l’eterno turbamento intimo, l’eterna pulsione omoerotica di Mann: gli occhi azzurri chirghisi di Madame Chochat , il suo corpo androgino ricordano a Castorp quelli di un suo amore adolescenziale, Hippe.
Tantissime le tematiche, ne cito solo qualcuna: il progresso nel campo della medicina e dell’ingegneria. La Torre Eiffel è stata inaugurata da poco, lo stesso cugino di Hans è un soldato moderno, Hans lavora nella costruzione di navi...
È il romanzo della complessità del reale.
I malati vengono guardati dentro doppiamente: attraverso i raggi X che fanno una fotografia dell’interiorità fisica e attraverso la psicologia...Il dottor Krokowski introduce i malati ai segreti di questa nuova scienza e lo fa attraverso quindicinali conferenze cui tutti debbono partecipare, pena il risentimento personale dello stesso dottore.
Interessanti i passi in cui si spiega come funziona la camera per i raggi X, a cosa serve lo pneumotorace, la risezione delle costole...tantissimi termini della medicina moderna!
Appassionanti i dibattiti di idee di Settembrini e Naphta sulla morte, sulla libertà, sul progresso, sull’opposizione corpo/spirito, Occidente/Oriente, sulla cremazione dei cadaveri, sullo scenario internazionale che si sta preparando alla prima guerra mondiale.
Meravigliosi i passi sulla scrittura come tempo musicale! Le riflessioni dell’autore narratore onnisciente fanno capolino in diverse pagine del libro.
Un libro che non va letto solo due volte, come consiglia lo stesso autore ai suoi studenti di Princeton - in appendice a questa edizione troverete la conferenza di Mann in merito a quest’opera- ma dieci volte almeno! Un romanzo che va ben oltre il genere di romanzo, così denso di significati che, sicuramente, ad una prima lettura (è il mio caso), presi dalla trama, perdiamo. Un romanzo sulla complessità della vita moderna che porta alle nevrosi ed all’isolamento: i malati del Berghof sono tutti malati di petto? Bene o male non portano dentro di sè le loro nevrosi e le loro isterie? Lodovico Settembrini chi altro è se non l’illuminista, la ragione che vive lassú, lontano dalla pianura, ma fuori dal sanatorio ( lontano dall’isteria quale sconvolgimento dello spirito), in un appartamentino privato?
Settembrini è secondo me la figura principale, dopo Castorp, di tutta l’opera: con la sua presenza a volte invadente ed inopportuna, sempre presente come il prezzemolo nelle situazioni più intricate, con il suo garbo, con la sua magnifica ed eloquente italianità (che secondo me Mann ammira) strenuo difensore della razionalità, della libertà dello spirito in un mondo che si appresta invece a soccombere alla barbarie.
Un romanzo che canta la fine della Belle Époque e il tramonto della razionalità . Con un finale commovente.
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E a chi ama le sfide che un romanzo complesso e denso propone.
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L'astrazione dal tempo
Altro romanzo capolavoro di Thomas Mann da relazionare con il suo primo “I Buddenbrook”; una lettura piacevole, densa di dettagli sia su i vari personaggi che su quanto circonda gli ambienti e la natura.
Il protagonista è un giovane tedesco laureando in ingegneria , Hans Castorp, che si imbatte, suo malgrado e inconsapevolmente, in un episodio all’apparenza banale ma che cambierà totalmente il suo percorso di vita e la sua visione mentale riguardo il trascorrere del tempo, la sua intrinseca relatività, la propria percezione di fatti e accadimenti quando si svolgono in situazioni aliene dalla quotidianità in cui si svolge la routine dei nostri giorni ancorati a concetti stereotipati dai quali è difficile staccarsi.
Infatti la sua visita di cortesia a un cugino ricoverato negli allora sanatori, in questo caso in Svizzera, per curare la famosa tubercolosi, diventa un’avventura tale da coinvolgerlo fino a farlo diventare da ospite a paziente.
In questo ambiente paragonabile a una bolla che si astrae dal tempo e da tutto ciò che accade all’esterno, due altri fondamentali personaggi, oltre al cugino degente, di pensiero opposto l’un l’altro vengono a far parte della narrazione: uno, Lodovico Settembrini, elogia il progressismo e la forza della ragione, l’altro, Leo Naphta, contrappone l’irrazionale e una specie di nichilismo.
Ecco, allora, il nostro Hans combattere con la propria forza al fine di rigettare entrambe le posizioni propugnate dai suoi casuali conoscenti e immergersi sempre più in una sorta di abulia che passivamente lo fa rimanere abbarbicato per lunghi anni in quel frangente che sarebbe dovuto terminare in qualche settimana.
La narrazione è profonda con molta erudizione e descrizione particolareggiata di quasi tutti i personaggi anche non protagonisti. Un romanzo, forse, da dover rileggere al fine di poter assaporare, in seconda lettura, certe sfumature intellettuali utili alla comprensione.
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Una pietra miliare nella letteratura del Novecento
Con la “Recherche” proustiana, l’”Ulisse” di Joyce e “L’uomo senza qualità” di Musil , ritengo, ovviamente a mio giudizio, che “La montagna incantata” di Thomas Mann sia uno dei capolavori letterari della prima metà del Novecento, un’opera che, sia pure giudicata “ermetica”dal suo autore (in una conferenza agli studenti dell’Università di Princeton, 1939, riportata integralmente in appendice), cioè oscura, incomprensibile ad una prima lettura, rappresenta, come afferma il traduttore e germanista insigne Ervino Pocar, un ritratto grandioso e insuperabile della civiltà occidentale dei primi decenni del secolo scorso, una fusione mirabile tra prosa e poesia. Mann stesso, meravigliandosi del successo del romanzo, non era forse pienamente cosciente della grandezza dell’opera, consigliando (sempre nella sopracitata conferenza) a chi, nonostante le difficoltà incontrate in una prima lettura, fosse arrivato in fondo, di rileggere il tutto una seconda volta: solo allora certe asperità si sarebbero appianate, personaggi e situazioni avrebbero rivelato tutta la loro poetica grandezza. Il romanzo, concepito tra il 1912 e il 1924, narra, come è noto, le vicende di un giovane ingegnere di Amburgo, Hans Castorp, che si reca a visitare il cugino Joachim ricoverato nel sanatorio Berghof di Davos, cantone svizzero dei Grigioni; un soggiorno di poche settimane si tramuterà, per la scoperta di un focolaio polmonare, in un soggiorno di sette anni, durante i quali il giovane Hans vivrà situazioni e incontrerà personaggi che segneranno per sempre il suo carattere e la sua vita. Mann conosceva bene il nosocomio per un breve ricovero nel 1912 della moglie Maria, in seguito guarita: ambientando la storia nello stesso luogo, riesce a trasformarlo in un luogo della memoria e, per il giovane “eroe” della storia, in un luogo surreale, quasi al di fuori del tempo e dello spazio, sospeso in un paesaggio da sogno, tra pendii innevati e borghi di montagna lontanissimi dalla pianura, da “laggiù”, dove si fatica e dove la vita di ogni giorno scorre monotona, indifferente agli incanti di “lassù”. E il giovane Hans impara a vivere nuove esperienze ed a confrontarsi con il prossimo. Parteciperà, sempre più coinvolto, a dibattiti ideologici tra il progressista e rivoluzionario Luigi Settembrini (il nome ricorda quello dell’omonimo patriota e letterato italiano) e il conservatore ebreo Leo Naphta, ex gesuita cinico e sostenitore delle pene corporali, soffrirà per la morte del cugino Joachim consunto dalla tisi, proverà le prime pene d’amore per Madame Chauchat, una bella sinuosa Chirghisa dagli occhi a mandorla, cercherà di apprendere nozioni di anatomia e fisiologia, si appassionerà di botanica, gestirà serate musicali per i ricoverati ascoltando brani di musica lirica e canzoni popolari, arbitrerà addirittura un duello alla pistola finito tragicamente, si lascerà trascinare in sedute spiritiche… I lunghi anni al sanatorio saranno una scuola di vita: non solo opportune terapie sotto la capace guida di un singolare primario e del suo aiuto, ma anche cene e pranzo luculliani e continui, cordiali rapporti con gli altri ricoverati, una congerie di personaggi rappresentanti una società in evoluzione e complessa, con le più disparate etnie e condizioni sociali (basti pensare alla distinzione, nella distribuzione dei posti a tavola, tra “russi incolti” e “russi ammodo”).
La lettura non è agevole e richiede pazienza e attenzione, anche per la traduzione efficace ma un po’ datata di Ervino Pocar. Intere pagine sono dedicate a riflessioni sul tempo (il tempo del racconto, il tempo della vita, il tempo della musica…) e sulla percezione soggettiva del suo trascorrere, sullo spazio, sul significato della vita e della morte, sulla materia, dagli atomi infinitamente piccoli alla grandiosità dell’universo… Per non citare le complesse e snervanti diatribe tra i due intellettuali già citati, l’illuminista italiano Settembrini e il gesuita Naphta, romantico e decadente, ai quali si aggiungerà nell’ultima parte del romanzo l’olandese di Giava Pieter Peeperkorn, dotato di grande “personalità”, come lo definisce Mann, estroverso e irrazionale. Veri brani di grande letteratura le descrizioni paesaggistiche, nel mutare delle stagioni, ed il racconto mirabile della prima uscita di Castorp con gli sci sui pendii innevati, ove verrà colto da una tormenta che lo costringerà a ripararsi presso un capanno: durante la sosta, colto dal sonno, avrà la visione di una assolata riviera marina con giovani figure danzanti, di templi e rovine antiche, di una spelonca ove una strega solleverà le mani lorde di sangue da un sacrificio umano… Immagini oniriche sospese tra sogno e realtà, un unicum visionario, un compendio di vita e di morte che solo lassù, nella “montagna incantata” e nella sua ambientazione rarefatta e surreale può aiutare il giovane Castorp a trovare una sua via per capire e rientrare nella vita della pianura. Ed il nostro “eroe” verrà finalmente dimesso e si ritroverà sì in pianura, ma con una divisa addosso, a lottare per la sopravvivenza nel fango e tra le macerie della prima Grande Guerra Mondiale. Ma Thomas Mann conclude con un messaggio di speranza, la stessa che traspare nei continui apprendimenti di Hans Castorp nell’asettico isolamento di Davos: come è nato per il nostro “pupillo” un sogno d’amore nel sanatorio ove le miserie umane e lo spettro della morte aleggiano, così dalla “mondiale sagra della morte” in cui si dibatte il soldato Castorp potrebbe forse sorgere un giorno l’amore.
Queste sono le impressioni di una prima lettura del romanzo. Ma, come suggerisce l’autore, va sicuramente letto una seconda volta.
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UN IMPONENTE ROMANZO METAFORICO
“La montagna incantata” è un libro a più strati. Quello più superficiale ci mostra un romanzo dall’impianto e dallo stile inequivocabilmente realista. Esso racconta la vicenda umana di Hans Castorp il quale, recatosi a visitare per tre settimane il cugino in cura presso un sanatorio svizzero, vi rimane, per un motivo o per l’altro (l’insorgere, sia pure in forma leggera, della malattia prima e l’assuefazione alla vita agiata e protettiva della clinica successivamente), ben sette anni. La descrizione meticolosa – e appunto realistica - della vita al Berghof attraversa tutte le settecento pagine del romanzo, con una leggera vena di umorismo che mira a mettere alla berlina un universo che, chiuso e autosufficiente com’è, è in grado di diventare in breve tempo un vero e proprio surrogato della vita, tale da rendere addirittura inabili a vivere al di fuori di esso (allo stesso modo in cui uno zoo rende inetti alla sopravvivenza autonoma gli animali che esso ospita). Capitolata l’iniziale, stolida presunzione di essere diverso dalle persone che ha intorno (alla stessa stregua del Joseph K. del “Processo” kafkiano), il protagonista è costretto a subire quasi con onta la caduta in quella condizione di malato da cui si sentiva naturalmente esentato, ma, superato il primo inevitabile disorientamento, la immodificabile ritualità delle giornate di cura, fatta di misurazioni della temperatura, riposi in posizione orizzontale, brevi passeggiate all’aperto e lauti pranzi, gli diventa a tal punto congeniale da fargli perdere definitivamente ogni interesse circa la sua guarigione.
Quello della malattia (e della morte) è un tema che si arricchisce di implicazioni via via più profonde: e qui siamo al secondo strato, quello immediatamente sottostante. La malattia è per i pensionanti del Berghof quasi uno speciale segno di nobiltà, che li distingue dalla stupida gente del piano e dà loro diritto a uno stile di vita moralmente libero e disinibito, e in una delle sue lezioni sulla psicanalisi Krokowski vi intravede, sulla scia degli studi freudiani, l’espressione subconscia e liberatoria di passioni amorose e di pulsioni sessuali represse. Andando ancora più in là, Mann, con una invenzione degna del “Faust” di Goethe, promuove la malattia – a cui aveva già dedicato anni prima “Morte a Venezia” - al livello di un passaggio obbligato, non solo verso la salute e la vita, ma verso il sapere e la conoscenza (un atteggiamento simile a quello che un secolo prima Edgar Allan Poe aveva assunto nei confronti della follia). In questo senso la vita di Hans Castorp può essere letta come una storia di weltanschaung iniziatica.
Il terzo strato è costituito dall’originale trattamento riservato dallo scrittore tedesco al concetto del tempo. La scommessa è non solo quella di oggettivare il diverso valore assunto dal tempo, così come percepito dal protagonista, nelle diverse fasi della vicenda (denso e pieno nelle prime settimane di permanenza di Castorp al sanatorio, e sempre più smaterializzato, più privo di significato via via che le giornate iniziano a susseguirsi tutte uguali, con monotona e routinaria uniformità), ma anche quella di far aderire lo stesso stile narrativo a questa progressiva trasformazione, per mezzo di un cambiamento nel registro stilistico così come dell’inserimento di frequenti riflessioni dell’autore sul significato dello scorrere cronologico della vita.
Questa considerazione ci porta a considerare “La montagna incantata” alla stregua di un romanzo filosofico: i personaggi di Thomas Mann sono infatti tutti, chi più chi meno, portatori, anzi per meglio dire vere e proprie incarnazioni, delle posizioni ideologiche del tempo. Settembrini, ad esempio, l’umanista che aspira a liberare l’umanità dalla sofferenza, che ha come eroi Prometeo e Leopardi e che ammonisce Castorp a non lasciarsi vincere dall’inerzia e dallo snobistico vittimismo che impera nel sanatorio, è l’alfiere della ragione illuministica; il suo avversario Naphta è il patrocinatore dello spirito trascendente (in un paradossale connubio di gesuitismo e comunismo); Behrens è il simbolo del darwinismo scientifico e Krokowski della psicanalisi freudiana (con le sue derive irrazionaliste); e infine Mynheer Peeperkorn è l’esteta del sentimento e dei piaceri carnali. Tutti questi (e altri ancora che non ho citati per dovere di sintesi e di brevità) sono altrettanti poli entro la cui orbita viene di volta in volta attirato Castorp, inconsciamente alla ricerca di un sostituto della figura del padre che non ha mai avuto e anche – in quanto espressione dell’uomo borghese, cioè dell’uomo medio senza idee forti e potenzialmente vittima del conformismo o del fanatismo ideologico (sarebbe interessante sapere, se il romanzo non si interrompesse sulla soglia della Grande Guerra, quale posizione avrebbe assunto nei confronti della dittatura nazista) – di un valore per cui valga la pena di vivere (di qui le sue estemporanee passioni per l’anatomia, per lo sci, per la musica o per le sedute spiritiche).
La natura dei personaggi manniani (che comunque – lo ripeto a scanso di equivoci – conservano sempre un notevole spessore psicologico da grandi figure romanzesche) ci porta allo strato più profondo dell’opera, quello più squisitamente simbolico. Il sanatorio è infatti la metafora di un mondo, in specie l’impero austro-ungarico, e di un’epoca in dissoluzione. Per Mann, infatti, lo spirito del tempo, così “privo di speranze e prospettive” determina “un’azione paralizzante la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo”. Di qui il collegamento con la malattia del protagonista e degli altri ospiti del Berghof, e di qui anche il nesso, attraverso il progressivo deteriorarsi dello spirito dei pazienti (preda dei demoni della stupidità, dell’intolleranza e della violenza), con l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, di cui gli avvenimenti narrati rappresentano in chiave metaforica gli inquietanti prodromi. E’ per questi motivi che “La montagna incantata” può a buon diritto essere considerata come uno dei più grandi e affascinanti affreschi della storia dell’Europa nel primo scorcio del XX secolo.
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Il mondo fuori dal mondo
Doveva essere un romanzo breve che raccontasse in chiave sottilmente umoristica la vita nei sanatori montani contro la tubercolosi, di cui l’autore aveva fatto esperienza accompagnandovi la moglie. Ben presto, però, il libro ha forzato la mano, come ricordato dallo stesso Mann, diventando opera richiedente lunghi anni di lavoro sino a trasformarsi nel poderoso (e ponderoso) ritratto di un mondo al tramonto, ovvero la società borghese che uscirà modificata nel profondo dal primo conflitto mondiale. I tratti originari si notano ancora soprattutto nei primi capitoli, con l’arrivo del giovane ingegnere amburghese Hans Castorp per una visita di tre settimane al cugino Joachim e la sua introduzione ai riti quotidiani e alla varia umanità del lussuoso luogo di cura. Come quella che doveva essere una veloce parentesi nell’esistenza del protagonista muta in un lunghissimo soggiorno di sette anni, la natura del libro cambia: il sorriso dello scrittore è riservato quasi in esclusiva agli inciampi del suo personaggio mentre ne viene descritta la vicenda in un romanzo di formazione spirituale – quanto di tedesco c’è in questo… - staccato in buona parte dalla comune quotidianità. L’anima di Hans è contesa tra il positivista Settembrini e il nichilista Nafta: il primo è a tratti utopico fino alla parodia (l’enciclopedia delle sofferenze) anche se con il passare delle pagine Mann lo guarda con crescente simpatia, il secondo si distingue per le continue provocazioni che inserisce nelle sue sottigliezze gesuitiche. Durante le lunghe passeggiate montane, le schermaglie dialettiche tra i due analizzano ogni aspetto dell’uomo visto come animale sociale, ma risultano a volte talmente estenuanti che non stupisce come Castorp subisca il fascino di quel Peeperkorn che entra in scena nell’ultimo terzo con vitalità dionisiaca al limite del grottesco e forte personalità. L’imponente figura è il nuovo amante di Claudia Chauchat, la giovane russa dai tratti quasi felini di cui il protagonista si invaghisce in maniera cerebrale - in molti aspetti morbosa - e che è uno dei motivi che spingono Hans a rimanere al Berghof. Tra gli altri si possono individuare almeno una fascinazione per la morte o, per meglio dire, per il rapporto della stessa con la vita (va ricordato che di tisi si moriva spesso giovani) e il distacco dalla realtà quotidiana, là nel ‘piano’, i cui riflessi giungono sempre più ovattati mentre Castorp elimina un legame dopo l’altro sino a rinunciare all’amata marca di sigari: al contrario di Joachim, che si ribella fino a mettere a repentaglio la propria salute, Hans si chiude in un bozzolo protettivo nel quale ignorare i clangori della storia. Non si può però fuggire in eterno e l’ultimo, meraviglioso capitolo catapulta il protagonista in qualche mattatoio sul fronte occidentale descritto con paragrafi dominati dal fango e dal sangue per una concretezza degli elementi che si pone al polo opposto dell’esitenza ‘astratta’ del Berghof, alla quale la lega solo la tragedia, qui però insensata, delle morti prima del tempo. Come si vede, ne ‘La montagna incantata’ succedono molte cose, ma, al contempo, dal punto di vista concreto accade ben poco: qualcuno muore, qualcuno arriva mentre Castorp medita oppure dialoga oppure viene preso da piccole manie a cui si volge con dedizione assoluta (le visite ai moribondi e, antitetico, il grammofono), circondato da un’umanità benestante, ma, con l’eccezione dei succitati ‘maestri’, vanesia e fondamentlmente vuota, come riassunto con arguzia nel capitolo dedicato alle sedute spiritiche. Un simile complesso di situazioni – alle quali va aggiunta un’idea irrazionalmente relativa del tempo - fa sì che navigare fra queste pagine non sia semplice: Mann si sforza di mantenere il tono lieve, ma, d’altra parte, è evidente come tenga ai trattare qualsiasi dei millanta argomenti affrontati con la maggiore precisione possibile, sia in ambito umanistico, sia in quello scientifico (e pazienza se alcune convinzioni, specie in medicina, risultano oggi sorpassate). La conseguenza è che, per apprezzare al meglio (e in attesa di una rilettura, come consigliato dall’autore) è necessario lasciarsi avvolgere dall’atmosfera del romanzo, resistendo alla tentazione di vedere simboli ovunque e abbandonandosi ai momenti di grande letteratura presenti con generosità e per i quali basti citare i capitoli che narrano la (folle) giornata sugli sci in solitaria di Hans e la scena del duello.
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Dove il tempo non è tempo
Romanzo impegnativo per lunghezza e contenuti, costituiti in buona parte da nozioni di carattere filosofico, storico, scientifico e psicologico.
La cultura enciclopedica di Mann e la sua intelligenza poliedrica caricano la narrazione di gare dialettiche e controversie intellettuali a cui il protagonista Hans Castorp, “pupillo della vita”, assiste volentieri nel percorso di crescita interiore che intraprenderà durante il lungo ricovero nel sanatorio di lusso Berghof, sulle Alpi svizzere.
Meno volentieri vi assiste, in genere, il lettore, disposto comunque a sciropparsi concetti “che sorpassano di molto il suo orizzonte” (così si esprimerebbe lo scrittore) pur di non essere tagliato fuori dalla sostanziale bellezza dell'opera.
Leggere “La montagna incantata” significa vivere un'esperienza in un luogo dove il tempo non è tempo e tutto sembra collocarsi in una provvisorietà definitiva e rassicurante (“L'abitudine a non abituarsi”), dove vita e morte si intrecciano in modo bizzarro, persino ironico: “...ed ecco rimbombare il gong che invitava i non degenti e non moribondi a prepararsi al pasto principale”.
Personaggi bizzarri e incursioni nel paranormale, raccontati impeccabilmente e con un tocco di humour, rendono il libro particolarmente interessante, così come gli effetti sul giovane Castorp delle ultime scoperte scientifiche tese a sviscerare corpo ed anima, messe a servizio della medicina agli inizi del Novecento.
Emblematiche le scene della vista su lastra dello scheletro della propria mano (“...e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto”) e di una bufera di neve, con un'avventura di quasi premorte a cui fa seguito una frase dal sapore di rivelazione:
“Per rispetto alla bontà e all'amore l'uomo ha l'obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri”.
Se è vero che la malattia umilia l'essere umano, riducendolo a mero corpo, è altrettanto vero che finisce per innalzarlo ad un grado di consapevolezza e di sanità superiori che senza di essa non avrebbe mai raggiunto: in quest'ultima riflessione sta racchiuso lo spirito del romanzo.
Cosa ne sanno le persone rimaste in pianura di tutto questo?
Seguire la cura orizzontale adagiati su “un'eccellente sedia a sdraio”, al cospetto di un maestoso paesaggio di cime innevate, dove le stagioni si alternano nell'arco di pochi giorni, consente di osservare l'esistenza da un punto di vista inedito, quasi rovesciato.
Rialzarsi per proseguire il cammino tra i “sani” comuni mortali non è cosa facile:
“Spira un'aria crudele laggiù, inesorabile. Stando qui a letto e guardando lontano, c'è da provarne orrore”.
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I giorni malati
“Non c'è niente di più doloroso che vedere come la nostra parte organica, animale, ci impedisca di servire la ragione.”
Quando hai individuato qualcosa da osservare – che tu l'abbia cercata o ti sia capitata dinanzi agli occhi, magari per un colpo di fortuna – non hai ancora tutto. Occorre trovare il giusto punto di osservazione (e bisogna saperlo fare, perché questa non è cosa che capiti per caso).
Così, per avere un'idea del mondo e poterlo davvero guardare, occorre trovare un luogo che sia allo stesso tempo dentro e fuori di esso, ma dal quale il mondo, e la natura umana, acconsentano a lasciarsi scrutare.
Hans Castorp giunge al sanatorio Berghof, incastonato tra le tranquille montagne svizzere, per far visita a suo cugino Joachim, un militare che soffre di un disturbo respiratorio. L'intenzione di Hans è rimanere in quel luogo tre settimane: un periodo assolutamente trascurabile per chi invece – afflitto da tubercolosi o da malattie polmonari, sfibrato da accessi di tosse cavernosa o dai penosi rantoli che ne accompagnano il respiro – è destinato a curarsi per interi anni; un'utopia per chi – a volte accade – scende da quel luogo solo come cadavere trascinato dalle slitte lungo il funesto tracciato disegnato nella neve.
Chiunque, al posto di Hans, si sentirebbe in tutto e per tutto ospite, restando mentalmente distante dalla condizione di chi è lì perché malato. E' per questo, forse, che egli sottovaluta il luogo e i suoi dintorni: nel corso di una solitaria passeggiata in altura, viene sorpreso da un affaticamento improvviso, è costretto a fermarsi, e torna al sanatorio in preda ad abbondante sanguinamento dal naso. Alla successiva visita medica, apprende che dovrà restare in quel luogo ben più di tre settimane, e che la sua condizione non è diversa da molti dei malati – sebbene quelli più lievi – che occupano la struttura di Berghof.
Hans ne uscirà sette anni dopo, incrociando un tempo attraversato da quell'orrore senza ragione che verrà ricordato col nome di “Prima guerra mondiale”, alla quale prenderà parte.
Poche righe di Thomas Mann bastano ad individuarlo come uno scrittore di grande modernità. Lo stile non si discute, e molti dei personaggi che compongono il microcosmo umano del sanatorio Berghof sono dipinti superbamente: Madame Clavdia Chauchat, la donna dagli occhi chirghisi che fa sbattere la porta a vetri; il sottile umanista Lodovico Settembrini, di enciclopedica cultura, in certo modo uguale e contraria a quella sfoggiata da Naphta, il suo rivale...
La montagna di Mann – perlomeno quel piccolo angolo che egli racconta – è incantata in quanto il tempo sembra fermarsi: in un'epoca “incendiaria” per l'Europa, il piccolo sanatorio vicino Davos è un luogo dal quale osservare l'umanità, le sue filosofie e credenze, le manie e gli eroismi, in definitiva il suo mistero.
In quest'ottica, i dialoghi dei personaggi che si incrociano nel libro – ed in particolare quelli tra Castorp e Settembrini – consentono al suo autore di affrontare un'infinità di temi culturali, morali, religiosi, psicologici, filosofici. Personaggi e temi come “sognanti intrecci di una composizione intellettuale” (espressione che nel 1939 userà lo stesso autore nel parlare del libro agli studenti dell'università di Princeton).
Ma i temi, alla fine, sembrano troppi persino per un'opera di milleduecento pagine: ciò che il libro restituisce nei ritratti di un'epoca – a partire da Hans Castorp – e nella ricerca del destino umano, pare sottratto da un eccesso di argomenti e speculazioni affrontate necessariamente in uno spazio ristretto.
In tal caso, l'unica è di sperimentare il consiglio che lo stesso Mann soleva dare su questo libro: a meno che alla prima lettura non abbia indotto noia, esso va letto almeno due volte, per poterlo davvero assaporare.
Una curiosità: il sanatorio raccontato nel libro esiste davvero al tempo di Mann, ed egli vi aveva accompagnato la moglie per quel periodo di tre settimane che, al proprio arrivo, il protagonista Hans Castorp immaginava come quello di permanenza presso la struttura.
Di recente, il regista Paolo Sorrentino vi ha ambientato il film “Youth” (con Michel Caine e Harvey Keitel), che ha riscosso discreto successo e vari premi. Nonostante la differenza temporale tra le epoche, sembra esservi un sottile rimando tra alcune situazioni del film e del libro. Chi può dire se l'atmosfera di un posto del genere travalichi lo scorrere del tempo, per costituire conferma, a suo modo, dell'universalità del mistero umano.
Indicazioni utili
Acclimatamento
NECESSARIE PREMESSE:
1) leggo l'opera tradotta da Ervinio Pocar;
2) adoro il titolo "La montagna incantata";
3) mi riservo di leggere la traduzione di Renata Colorni e accetto di buon grado il nuovo titolo " La montagna magica" non tanto per rendere giustizia all'aggettivo magica presente nel titolo in lingua originale, quanto perché magica mi strappa un sorriso che inonda in egual misura la mia anima,
4) fingo di non sapere ciò che so e molto non so e non ho capito, per azzardare una mia lettura.
CAPTATIO BENEVOLENTIAE (è necessaria)
Scrivere qualcosa all'altezza di questa opera è come scalare un ottomila. L'impresa non si può azzardare e non è nemmeno alla portata di tutti.
Perché lo faccio, allora?
Tento l'azzardo?
Sicuramente. Chiedo venia in anticipo.
In realtà covo questi pensieri già da un periodo di tempo ormai fagocitante e allora provo a liberarli e a liberarmi inondando voi come Mann ha fatto con me. Piero Citati mi ha fatto ridere parecchio quando, in un suo articolo su "Repubblica" del 3 novembre 2010, ha ammesso di non amare "le innumerevoli nozioni e idee che la sua regale cornucopia rovescia sopra il nostro capo indifeso". Io invece le ho adorate e mi sento così piccola.
Leggerò l'opera inseguendo un'immagine e cercando di lasciarla in termini utili a voi. Davvero, non è possibile fare altro se non dedicare molto tempo al suo studio e rileggerlo ,il romanzo, per cogliere anche i corposi rapporti tra forma e contenuto.
E allora torniamo all'ottomila...
Chi va in montagna, soprattutto ad alte quote, sa quanto sia INDISPENSABILE, ASSOLUTAMENTE NECESSARIO, DI VITALE IMPORTANZA, fare un corretto acclimatamento.
Dunque questo libro parla di montagna?
Anche, ma di una montagna incantata che è la vita e alla quale , tutti, dovremmo acclimatarci.
E, come sanno bene quelli che vivono l'esperienza montagna, ma anche i meno fortunati, quelli che vivono solo la vita, senza la montagna, di fondamentale importanza è il tempo, vuoi quello strettamente meteorologico, vuoi quello necessario per fare certe esperienze, vuoi quello da calcolare per eventuali ascensioni e ritorno. Tutti sanno, però, in fin dei conti, che il tempo non conta e che la dimensione cercata è un' altra.
E allora la vita non è forse scandita dalla dimensione temporale che le è poi completamente aliena?
Nasci, vivi , muori. Conti, nel frattempo, minuziosamente i giorni, i mesi, i primi anni via via fino a smettere di contarli per poi tornare, orgogliosamente a sbandierarli, i tuoi anni, il tuo tempo, se lo hai vissuto bene. Ma il pensiero che il tempo sia poi indeterminabile ritorna in vita e lo fa proprio in prossimità del limitare di quella vita , unica dimensione temporale che conosciamo ma che non possiamo in fondo calcolare.
E allora l'invito è quello di trascorrerlo il tempo, come Castorp, il protagonista, accettando quello che viene, portando avanti il necessario acclimatamento.
"Dio mio, com'è bella la vita!"
"La vita è un'istituzione quasi favolosa la quale ci rende felici"
E allora, dopo questa lettura corposa, accogliamo la vita e affrontiamola anche da un piano più alto, da una veranda non sempre soleggiata, da una posizione anche orizzontale e contemplativa che questo romanzo ha saputo, in me, rinnovare.
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SFACCETTATURE
In questo strabiliante componimento, Thomas Mann raffigura un soggetto, tale Hans Castorp, che si trova segregato in una casa di cura e prende parte attiva alle discussioni e alle dispute su concezioni filosofiche, letterarie, ecc. ecc., che percorreranno tutta la prima parte della metà del Novecento, tra estremisti radicali e moderati/conservatori. Il tutto per la rappresentazione dell'uomo problematico, tema comune della letteratura mondiale, con valori esaustivi e personaggi scomposti in livelli multipli.
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Mille panorami umani
Hans Castorp si reca a trovare un cugino in sanatorio e finisce col restarvi, ammalatosi a sua volta, per 7 anni. A contatto con il microcosmo del sanatorio, vero e proprio panorama di tutte le correnti di pensiero, il suo carattere subisce un'evoluzione e un incremento: passa attraverso la malattia, l'amore, il razionalismo e la gioia di vivere, il pessimismo irrazionale, senza che nessuna di queste posizioni lo converta. E in mezzo a tante forze contrastanti, Castorp trova il suo equilibrio. Scoppia la guerra nel 1914 e Hans viene strappato da questa magica e raffinata atmosfera per essere gettato sui campi di battaglia dove la sua sorte resta incerta, ma immersa in un clima di morte. E’ una metafora, della Grande Guerra, che distrugge l'atmosfera gaudente e dorata della Belle Epoque, simboleggiata dal gruppo di malati rinchiusi nel sanatorio. Lo stile di questo romanzo è lentissimo, e, se ci si lascia trasportare, diventa avvincente, quasi ipnotico: certo occorre concentrazione ed è una bella sfida, anche, ma non solo, per la lunghezza. E’ indubbiamente un romanzo che presenta innumerevoli ed elevati spunti di riflessione sul pensiero filosofico e umano. Un classico della letteratura tedesca, irrinunciabile.
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Alla corte del Kaiser Mann.
Ammetto una mia debolezza : è il mio libro preferito del grande Thomas Mann.
Il sanatorio inteso come locus amenus dove, al di fuori del mondo, in un contesto di pace apparente, uomini e donne "malati" si ritrovano ... a parlare di politica con Ludovico Settembrini o, alle ore canoniche, a provarsi la temperatura dopo sedute di una o due ore sotto il plaid, all'aperto.
La montagna incantata è un testo la cui metascrittura e metastilistica mi hanno sempre affascinato.
Come un bambino.
Perché ci si sente dannatamente piccoli di fronte al Genio.
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