Gita al faro
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Un lampo tra le tenebre del tempo
Se un libro è considerato un capolavoro, un motivo ci sarà. I libri belli non sono quelli che piacciono per forza a tutti, ma sono quei libri talvolta difficili che ti lasciano addosso qualcosa che sa di eterno.
“Al faro” non è per tutti, il lettore va avvisato. Il focus del libro non è assolutamente una piacevole ed agognata gita fuori porta che profuma di mare e risuona dei versi dei gabbiani. Se cercate questo nel libro, chiudetelo. Chiudetelo, assolutamente, perché siete a quanto di più lontano dall’opera della scrittrice.
Non è un libro di trama, è invece un libro di stile. Uno stile equilibrato, dove il virtuosismo non è troppo ardito e, quindi, accettabile.
Ho riscontrato una sola difficoltà. I flussi di coscienza sono multipli, ora entriamo nei pensieri di un personaggio, ora nei pensieri di un altro e questi voli pindarici, che talvolta si accavallano, richiedono concentrazione altrimenti si rischia di non seguire la scrittura. Io ho riletto le prime trenta pagine almeno due volte, poi sono riuscita ad armonizzarmi con lo stile e da allora è stata solo una piacevolissima scoperta.
Avevo già letto La signora Dalloway, ed apprezzato con immenso piacere lo stile della scrittrice. Ho trovato originale e particolare il romanzo “Orlando”, ma “Al faro” mi rende concorde con coloro che lo ritengono il capolavoro della Woolf.
Per apprezzare pienamente quest’opera secondo me, sarebbe interessante leggere il diario della scrittrice, perché è lì che lei spiega la concezione di To the lighthouse, tradotto ultimamente con il titolo “Al faro”, titolo più vicino all’idea del testo.
Non è la gita al faro il cuore della narrazione, ma la tensione verso un qualcosa incarnato da un faro, che potrebbe significare la verità, il senso del tempo, la realizzazione delle aspirazioni personali disattese.
Il faro potrebbe essere il ricordo della madre di Virginia Woolf, qui rappresentata dalla signora Ramsay.
Nel diario Virginia Woolf scrive:
“the presence of my mother obsessed me. I could hear her voice, see her, imagine what she would do or say as I went about my day’s doings. She was one of the invisible presences who after all play so important a part in every life […], It is perfectly true that she obsessed me, in spite of the fact that she died when I was thirteen, until I was forty-four”
Un giorno, la scrittrice, illuminata da una specie di correlativo-oggettivo, pensa a sua madre e immediatamente immagina un faro. Scrive velocemente il libro, libera un fiume in piena. La scrittura diventa la terapia per elaborare il lutto dopo tanti anni.
Ma “Al faro” è un concentrato di materia letteraria: non solo la figura centrale della madre che tiene unita la numerosa famiglia, ma anche il tema dello scorrere del tempo, della precarietà delle nostre vite, delle tensioni umane, dell’amore, delle ipocrisie, del non detto che rode le viscere, dei pensieri che scorrono più vivi e veri del meccanicismo delle azioni quotidiane. È un libro che parla di attese, di bellezza, di natura, di ricordi, di consuetudini di una famiglia che ad un certo punto perde il suo “faro”, e tutto questo è raccontato in una esplosione di immagini e di puro lirismo. Perchè il signor Ramsay e la signora Ramsay, tratteggiati magnificamente dalla penna della scrittrice, corrispondono grosso modo al padre e alla madre della Woolf!
Il padre, filosofo, con le sue idiosincrasie, le sue letture preferite, le sue concezioni sul sesso femminile, innamorato della bella moglie, odiato dai figli perché ama quasi contrariarli
“…i figli generati dai suoi lombi, dovevano rendersi conto sin dall’infanzia che la vita è difficile, la realtà intransigente, e il passaggio a quel paese favoloso ove le nostre speranze più vivide s’estinguono e le nostre frali scorze naufragano nella tenebra(…)”
(Traduzione Giulia Celenza, ediz. Garzanti)
La signora Ramsay, come la madre dell’autrice, rappresenta ciò che c’è di buono e di bello, è amata da tutti, mette una buona parola sempre per gli amici e muore prematuramente.
“Tutti ricorrevano a lei, da mattina a sera, così, perché era donna; chi voleva una cosa, chi un’altra; i ragazzi crescevano; e a lei pareva ormai d’essere niente più che una spugna inzuppata d’emozioni umane”.
Il libro è diviso in tre parti, un trittico di tre pannelli dove poesia e colori incontrano flussi di coscienza e talvolta epifanie liriche: La finestra, Il tempo passa, Il faro.
Interessante anche il personaggio di Lily Briscoe, che probabilmente è l’alter ego della Woof, nubile, pateticamente legata al sogno di dipingere bei quadri, che riflette sui rapporti tra i sessi:
“Ella non avrebbe mai capito quel giovanotto. Quel giovanotto non avrebbe mai capito lei. Le relazioni umane erano tutte così, ella pensava, e peggio ancora (fatta eccezione per il signor Bankes) quelle fra uomini e donne. Quelle poi erano estremamente ipocrite”.
Ah, l’amore, quel sentimento così “puerile, eppure così necessario!”
Raramente ho trovato pagine così intense, non serve leggere un libro di trama, i grandi autori non sarebbero grandi se avessero scritto libri “facili”. I grandi autori hanno fatto proprie le sensibilità del tempo in cui sono vissuti, le hanno rielaborate, hanno corretto centinaia di volte i loro scritti non punti dalle esigenze di mercato, ma dalle esigenze della letteratura. Quella vera.
Al faro è un libro pieno di luce e di colori, quelli ad acquerello che usa Lily Briscoe per dipingere la cara amica ormai estinta e quelli della letteratura che usa Virginia Woolf.
“Di scatto, come se qualcosa la richiamasse laggiú, si girò verso la tela. Eccolo – il suo quadro. Sí, con tutti i suoi verdi e i suoi azzurri, le linee che correvano verticali e di traverso, la sua aspirazione a qualcosa. L’avrebbero messo in soffitta, pensò, sarebbe andato distrutto. Ma che importanza ha? si chiese, prendendo di nuovo il pennello. Guardò i gradini; erano deserti; guardò la tela; era confusa. Con repentina veemenza, come se per un attimo lo vedesse distintamente, tracciò una linea là, al centro. Era fatto; era finito. Sí, pensò, posando il pennello stremata, ho avuto la mia visione.”
Voglio terminare con una piccola citazione di Hisham Matar (introduzione, edizione Einaudi):
“…l’intero romanzo è come un lampo che per un istante inonda la foresta. Invece di disperdere l’oscurità, ne lascia una traccia indelebile”.
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Le onde
Mi aspettavo di più
Ecco che finalmente sono riuscita a leggere il famoso romanzo di Virginia Woolf, "Gita al faro". Talmente famoso che molti tendono a iniziare proprio da esso e sono contenta di non averlo fatto e questo perché, a mio gusto personale, non rientra tra i migliori che ho letto. Mi ha lasciata una sensazione di incompletezza con un messaggio che non sono riuscita a captare nel suo insieme. Tra le tre parti che compone l'opera ho amato la parte centrale in cui fa da personaggio la natura, che si impossessa del tempo e della materia, natura viva e piuttosto ostile ma immensamente bella. Questa parte l'ho trovata molto poetica e anche godibile come lettura. Ciò che ho apprezzato meno in essa è come l'autrice ha gestito l'inserimento dei fatti avvenuti nel tempo come per esempio la morte della signora Ramsay o di Prue, che vengono intercalati tra una descrizione e altra tra parentesi quadre. Ora non so se è una scelta editoriale della mia edizione o il volere della Woolf ma personalmente l'ho trovato poco armonico. Magistrale il flusso di coscienza della prima parte ricco di dettagli che l'autrice riesce a portare avanti, tuttavia un flusso di coscienza abbastanza "elementare" a mio avviso- infatti si seguono tranquillamente i pensieri intercalati dei vari personaggi. Molto bella anche la terza parte, con un finale che sa di un cambio di prospettiva e molto simbolico per come l'ho interpretato, sembra quasi che l'intera storia sia il quadro finalmente finito di Lilly Briscoe ma anche l'atto creativo dell'opera in sè.
I temi trattati sono molti, quello che più mi ha colpita e che l'ho trovato molto incisivo e ben descritto è quello della nostra vita interiore, c'è un bellissimo passaggio in cui si parla della signora Ramsay, figura misteriosa per questa sua duplice vita interiore ed esteriore, in cui si dice che siamo immersi in pozzo oscuro, profondo ma ogni tanto saliamo in superficie e questo rappresenta ciò che gli altri sanno di noi. Anche il romanzo stesso gioca non tanto sui fatti veri e proprio, essendo esente quasi di trama e nemmeno su dialoghi ma su profondi monologhi interiori. Ha anche una sottile vena macabra, crudele, con James che in più occasioni ha pensieri omicidi sul padre, pensieri piuttosto violenti. Lascia un senso di tristezza e nostalgia.
Riassumendo, mi è piaciuto molto ma non moltissimo, me lo aspettavo più armonioso e a tal proposito non posso non nominare "Le Onde", scritto qualche anno dopo dove regna l'armonia perfetta, poesia vibrante e un flusso di coscienza davvero magistrale.
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Dispersivo
Difficile dire se sia principalmente dovuto alla concomitanza della lettura con un periodo di forte stress, ma ho fatto davvero molta fatica ad apprezzare questo romanzo di Virginia Woolf. In primis per la tecnica narrativa, sicuramente dall’impronta innovativa ma che io non sono riuscito ad apprezzare: il flusso di coscienza è già di per sé complicato da seguire, già quando si concentra solo su di un personaggio in particolare, figurarsi quando si passa da un personaggio all’altro come se fossimo all’interno d’una mente collettiva. Troppo dispersivo, confuso, quasi richiede l’attenzione che si dovrebbe riservare a un’opera poetica e questo è una caratteristica che in un’opera di prosa non apprezzo.
Opinione strettamente soggettiva, ma tant’é.
È stato proprio il capitolo centrale del romanzo a farmi capire che questi sbalzi tra i pensieri dei personaggi erano il motivo di tanta fatica: è quello che ho apprezzato di più proprio perché v’è la scomparsa della componente umana e dunque del brulichio confuso dei loro pensieri; tutto si concentra sul decadimento e sulla nuova presa di potere della natura, che soppianta quel che l’uomo ha lasciato vuoto e sembra prosperare in sua assenza. Le descrizioni della Woolf in tal senso sono molto evocative (sebbene talvolta eccessive e molto astratte).
Riguardo a quel che ci viene raccontato all’interno del romanzo non c’è molto da dire: non v’è una vera e propria trama, ma soprattutto il delineamento di alcuni caratteri sui quali spicca quello della signora Ramsay, vero perno della famiglia che fa sentire la propria presenza anche in seguito alla propria dipartita. È lei la vera presenza costante del romanzo, una donna dalle spiccate qualità relazionali, un fermo appiglio per tutti gli elementi della famiglia, motore d’un cambiamento radicale anche in personalità apparentemente granitiche e che dalla sua morte hanno acquisito la consapevolezza della bellezza della sua figura, della sua importanza.
Credo sia una lettura che gli amanti della poesia potranno apprezzare molto più di me.
“Inseguire la verità con tale stupefacente mancanza di rispetto per i sentimenti altrui, lacerare i veli sottili della cortesia in modo così gratuito, così brutale, era per lei un oltraggio così orribile alla decenza umana che, senza replicare, annichilita, chinò il capo come per evitare una gragnuola di taglienti chicchi di grandine, uno scroscio d’acqua sporca. Non c’era nulla da dire.”
«Se domani fa bel tempo»
"Gita al faro" di Virginia Woolf è una lettura tutt’altro che semplice, piacevole o scorrevole. Per la maggior parte del tempo è incredibilmente complessa, confusa e sfuggente. La trama, esilissima, lascia spazio (anche troppo) alla minuziosa introspezione psicologica dei personaggi. Il flusso di coscienza ininterrotto che mette a nudo ogni singolo pensiero è difficile da seguire e in un attimo si perde il filo e ci si ritrova smarriti in riflessioni che appaiono senza né capo né coda. La lentezza estrema della narrazione, poi, non aiuta a tenerne le fila, ma anzi appesantisce la lettura e favorisce la distrazione.
Per il virtuosismo stilistico, una prosa che quasi sfiora il lirismo della poesia, la struttura sperimentale che riduce al minimo la trama e lascia spazio al mondo interiore dei personaggi, "Gita al faro" è senza dubbio un classico di importanza innegabile per la storia della letteratura, travagliato frutto delle fatiche di una dei più grandi autori del XX secolo che proietta le vicende della propria infanzia nella vacanza alle Isole Ebridi della famiglia Ramsey. La scrittura è raffinatissima nel tracciare quasi con commozione il ritratto dei coniugi Ramsey, specchio dei genitori dell’autrice: lui un intellettuale debole, egoista, vanitoso, che nega una gita al faro al figlio bambino con la scusa del tempo, lei madre dolce, amorevole, attenta ai bisogni di tutti («Sì, certo, se domani fa bel tempo» promette al piccolo James, che chiede ansiosamente se l'indomani potrà vedere il faro), una figura statuaria, seducente, dalle mille sfaccettature, vero perno della narrazione che lascia dietro di sé un vuoto desolato quando svanisce, forse incarnazione del senso classico del racconto che il romanzo novecentesco sta ormai perdendo a favore dell’esplorazione di nuove strade.
Intorno ai Ramsey, nella loro casa delle vacanze, ruotano diversi personaggi secondari tra i quali spiccano Charles Tansley, piccolo studioso discepolo del signor Ramsey, convinto che le donne non sappiano eccellere in nessuna forma d’arte e costantemente impegnato ad autocelebrare se stesso per essersi "fatto da solo", forse portavoce di convinzioni maschili che Virginia Woolf deve aver ascoltato più volte nel suo percorso di scrittrice e intellettuale, e la giovane e tormentata pittrice Lily Brascoe, personificazione dell’autrice e testimone di quanto il travaglio che genera la creazione artistica possa essere difficile e avvilente. L’immersione nelle loro menti è altrettanto faticosa, pesante, farraginosa, e tuttavia il risultato è arte. In questo romanzo Virginia Woolf mostra la capacità straordinaria, come tutti i "grandi", di scandagliare l’animo umano fin nelle pieghe più sottili e nascoste, portando alla luce tormenti, desideri, paure, amarezze, inquietudini, tutta la banalità di quella massa viva e pulsante che è l’esistenza umana. "Gita al faro" non sarà una lettura piacevole e scorrevole, dunque. Non sarà il romanzo ideale se si cercano divertimento, evasione e vicende appassionanti. Ma un capolavoro che scava l’anima, questo sì, lo è.
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Tempo e vita
È all’età di quarantatré anni di quel 1925 che Virginia Woolf sente tornare ad emergere dentro di sé la presenza di quel fantasma, di quella presenza invisibile che colora la vita di ogni essere umano quando protagonista è la perdita. Per lei, quello spettro, non è altro che la madre, venuta a mancare quando aveva appena tredici anni e veduta morire con quella incredulità propria di occhi innocenti ancora incapaci di comprendere davvero quell’inesorabilità della separazione per mortis causa sino a cui sopraggiunge quella insopportabile consapevolezza, realizzazione del pre e post lutto, che va dalla trasformazione dell’affetto da bello e onnipresente a spezzato dalle circostanze a spirito la cui presenza è un ricordo che è fattore centrale nella mente per moralità e insegnamenti.
E così passano gli anni ma non passa mai la figura di questa donna e del suo esser stata. Da qui il bisogno di scrivere, di interrogarsi sul mistero dell’esistenza, del fato, delle certezze e delle insicurezze, di quegli avvenimenti inspiegabili con cui soventemente dobbiamo far i conti. Un senso di precarietà, di bilico che percepiamo con tutta la sua forza dirompente in “Gita al faro”, un’opera che ha inizio con una constatazione dal doppio riverbero essendo condizionata la sua riuscita al sopraggiungere o meno di fattori esterni, quali il fare o meno bel tempo. Un po’ come nel quotidiano, nell’esistenza che si perpetra giorno dopo giorno in un alternarsi di temporali (che come la metafora della luce del faro è la colonna portante dello scritto) e attimi di quiete. Dette antitesi, si susseguono per l’intero narrato e ben si coniugano con le singole personalità introdotte che, seppur riunite in un luogo comune, la villa dei Ramsay, agiscono e operano come particelle indipendenti, ovvero con una straordinaria autonomia che li porta a coesistere esclusivamente che per brevi anfratti per poi nuovamente tornare alla propria intima condizione di solitudine.
Tre le parti in cui l’elaborato è suddiviso. Nella prima, “La finestra”, conosciamo la famiglia Ramsay e apprendiamo della sua vacanza sull’isola di Skye nelle Isole Ebridi. A seguito della prima contrapposizione dettata dall’incertezza della gita prevista per il giorno successivo e alla tensione che ne emergerà tra coniugi, conosciamo tanti colleghi e amici della famiglia per giungere all’ultimo capitolo ove ha luogo la cena che al suo interno racchiude molteplici aspettative di fatto disattese.
Nella seconda, “Il tempo passa”, la Woolf si sofferma sullo scorrere del tempo. Il ruolo di questa sezione, a mio avviso, è quella di collegare la prima alla terza passando tra gli anni del Primo Conflitto Mondiale sino al presente.
Infine, nella sezione intitolata “Il faro”, vi è un ritorno al passato dei membri superstiti della famiglia Ramsay, che si recano alla loro casa delle vacanze progettando nuovamente quella gita al faro non compiuta dieci anni prima.
Tante le tematiche care all’autrice che è possibile ravvisare all’interno dell’opera e che vanno dall’ambivalenza tra cuore e mente, ragione e istinto, il tempo, le illusioni, il sogno, la vita che per quanto cerchiamo di trattenere è un flusso inarrestabile che non agisce in virtù delle nostre speranze, delle nostre aspettative, che non trattiene il desiderio per lasciarlo andare, l’amicizia, la famiglia, la memoria che non cura bensì rimarca il dolore, il rimpianto, il disequilibrio, l’introspezione.
Il tutto è avvalorato da una penna quasi poetica che ha la capacità di disegnare nella mente del conoscitore immagini di grande pregio e che al contempo tesse un legame indissolubile tra ogni singola parte del libro poiché ciascuna è perfetta conseguenza e successione dell’altra facendo integrare elementi tra loro diversi che coabitano senza mai tra loro prevaricare. I protagonisti rappresentano invece l’emblema di quell’emozione che è propria dell’umanità.
In conclusione, una perfetta tradizione del romanzo modernista in cui alla trama prevale l’introspezione psicologica dei personaggi, con una forte nota autobiografica e dalle molteplici riflessioni sul vivere, sul nostro essere.
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APPUNTAMENTO FALLITO CON IL DESTINO
“La vita – ha scritto Virginia Woolf – è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che avvolge completamente la nostra coscienza”. Della coscienza, appunto, di questo impalpabile e inafferrabile mistero quotidiano, la grande narratrice inglese ha descritto gli intimi riverberi e chiaroscuri, gli aneliti appassionati e i riflessivi ripiegamenti, dando alla sua lirica prosa le fragili sembianze della poesia. Straordinariamente recettiva, la penna della Woolf ha assorbito e registrato il fluire sconnesso e disordinato delle impressioni, dei pensieri e delle emozioni dei suoi personaggi e su questo inconsistente terreno ha edificato come per incanto una costruzione armoniosa ed equilibrata: “Gita al Faro”.
Fin dalle prime parole, fin dalla breve e lapidaria frase che, con l’annuncio dell’imminente escursione al Faro, apre in minore il romanzo (“«Sì, di certo, se domani farà bel tempo»”) veniamo introdotti nel cuore del mondo woolfiano. E’ un mondo in cui ogni impressione di gioia, di serenità e di sicurezza si rovescia in qualcosa di triste e di precario, pervaso da un’ombra di cupo fatalismo. L’iniziale affermazione (“Sì, di certo”), la quale procura al piccolo James una felicità immensa, è infatti significativamente corretta da una condizione (“se domani farà bel tempo”) che increspa, irrimediabilmente rovinandolo, il piacere dell’attesa; e un senso di occasione sciupata, di appuntamento fallito con il destino, si insinua nel romanzo, condizionandone tutto lo sviluppo futuro. L’andamento contrappuntistico è tipico di quest’opera. Termini come “oscurità e luminosità”, “ombra e splendore”, ad esempio, si alternano ritmicamente tra loro, con una intermittenza per molti versi simile a quella del fascio di luce del Faro, il quale non a caso rappresenta una delle fondamentali metafore del libro. Vi è poi il contrasto tra le singole, non amalgamabili, entità individuali: i numerosi personaggi riuniti nella villa dei Ramsay si muovono come particelle indipendenti e disaggregate, che solo raramente e per breve tempo riescono a trovare un momento di coesione, prima di disperdersi nuovamente nel vuoto. Gli stessi coniugi Ramsay, i quali esprimono la contrapposizione, abituale in Virginia Woolf, tra cervello e cuore, tra ragione e istinto, sono incapaci di comprendersi o aiutarsi, e sotto l’usurata superficie dei gesti quotidiani si comportano come due perfetti estranei. Esemplare, a questo proposito, è il dialogo che essi intrattengono nel giardino, quando si aggirano lungamente intorno agli argomenti che stanno loro a cuore, ma, senza risolversi mai (per mancanza di coraggio o eccesso di riguardo) ad affrontarli, si accontentano di conversare futilmente dei fiori e delle borse di studio dei figli; o il momento di intimità che segue la lunga cena, durante il quale la signora Ramsay capisce che il marito “desiderava qualcosa; desiderava ciò che a lei riusciva sempre tanto difficile concedergli; desiderava che lei gli dicesse che lo amava… Ma ella non poteva accontentarlo; non poteva dir certe cose”.
Molte altre significative antitesi sono disseminate nel romanzo (ad esempio, il contrasto tra aspirazioni e realizzazioni o quello tra illusione e realtà – ne parlerò più avanti -, e ancora la contrapposizione tra razionalità soggettiva e irrazionalità oggettiva), ma il fondamentale contrappunto, quello su cui si regge l’intera impalcatura di “Gita al Faro”, è quello temporale. La Woolf sembra catturare il tempo e restituircelo nelle sue implicazioni emotivamente più forti. I dieci anni che separano la prima parte dalla terza sono una tormentosa frattura che invano i protagonisti ancora in vita cercano di colmare con il ricordo. La vivida sovrapposizione, nella memoria, di passato e presente, il periodico riaffiorare di reminiscenze lontane (il sogno di Camilla, il rammarico di James provocato dalla mancata effettuazione della gita) si scontrano infatti con una realtà in cui è avvertibile (anche fisicamente: i gradini vuoti della casa) la mancanza delle persone amate, che un giorno avevano trasmesso agli altri il loro inconfondibile fluido vitale e che ora sono scomparse, per sempre. Non c’è strazio né disperazione in queste riflessioni sul passare del tempo, ma solo una contenuta commozione, un delicato struggimento. Nel passato ci si illude spesso di trovare conforto, di poter contemplare, fissandolo per sempre, il flusso inarrestabile della vita, come ama sognare la signora Ramsay (“…giudicò di poter ritornare nel mondo dei sogni, in quel luogo irreale e incantevole che era il salotto dei Mannings di vent’anni prima; e dove era possibile aggirarsi senza fretta o ansietà, perché non v’era da pensare al futuro. Ella sapeva quanto era accaduto allora a quegli amici e a lei. Era come rileggere un bel libro di cui si rammentava la fine; perché l’accaduto era di vent’anni prima e la vita, che sgorgava a fiotti perfino da quella mensa per fluire Dio sa dove, lassù era suggellata, placidamente conclusa, come un lago fra le sue rive”); ma appunto di sogni si tratta, perché in Virginia Woolf la memoria non ha la funzione consolatoria della Recherche proustiana, ma è, come scopre a sue spese Lily Briscoe, richiamando alla mente l’amata signora Ramsay, una lama che trafigge dolorosamente il cuore. “Il rimpianto vano, il desiderio struggente, come, quanto stringevano il cuore!… Sembrava così innocuo pensare a lei. Ella pareva uno spirito, un alito, qualcosa con cui giocare facilmente e senza pericolo in qualunque momento del giorno e della notte, ed ecco, all’improvviso allungava una mano per stringere a quel modo il cuore altrui. All’improvviso, i gradini vuoti all’ingresso del salotto, gl’intagli della sedia all’interno, il cucciolo scherzoso sul piazzale, tutta l’onda di bisbigli che aleggiava sul giardino divenivano curve e arabeschi volteggianti attorno a un centro d’assoluta vacuità”. Il passato, lungi dal consentire di raggiungere l’agognato equilibrio, la bramata pacificazione, svela impietosamente il disordine, il caos, la mancanza di senso della vita, ricordandoci “che ogni persona è sostanza effimera; che nulla permane, che tutto si trasmuta”. L’invocazione della persona amata che non c’è più, anziché dare sollievo, diventa così un vano tendere le braccia brancicando nel buio o un singhiozzo che ci soffoca e che non riusciamo a trattenere.
Questa complessa e affascinante elegia della memoria è tradotta in immagini elaborate e musicali, fitte di rispondenze e di suggestioni ritmiche, mediante le quali Virginia Woolf (in questo sicuramente debitrice del quasi contemporaneo Joyce) si sforza di descrivere l’ininterrotto flusso di coscienza dei suoi personaggi. La scrittrice, che pur non rinuncia a narrare in terza persona, indaga a fondo la realtà interiore di ciascuno, registrando, per mezzo di un fitto e ininterrotto monologare, l’intersecarsi di differenti piani temporali e l’alogico fluire di richiami e associazioni di idee (valga per tutti questo esempio: “…a un tratto egli s’avvide che si trattava di questo, sì di questo: ch’ell’era la più bella donna che avesse mai veduta. – Cogli occhi stellati e veli alle chiome, con ciclamini e viole – che sciocchezze gli venivano in mente? Ell’aveva almeno cinquant’anni; aveva otto figli. – Andando su prati fioriti e stringendo al seno bocciuoli recisi e agnelli smarriti, cogli occhi stellati e le chiome al vento… Le prese la borsetta”). Questa acuta e delicata esplorazione delle coscienze è modulata in tre tempi, ognuno dei quali è caratterizzato da un proprio inconfondibile ritmo: il primo è un lunghissimo piano sequenza, in cui dal rigoroso rispetto del tempo reale scaturisce, per mezzo di una raffinata tecnica di raccordi ed interconnessioni che lo moltiplica nelle coscienze dei personaggi, un effetto di dilatazione; il secondo, al contrario, condensa dieci anni di vita in poche decine di pagine ed è simile, musicalmente parlando, ad un elegiaco adagio; il terzo tempo, infine, riprende le fila del primo, però con una importante differenza: la vicenda (se di vicenda si può parlare, data la mancanza di un vero e proprio intreccio narrativo) abbandona l’unità di spazio e si sviluppa parallelamente tra il giardino della villa dove è rimasta a dipingere Lily Briscoe e il mare su cui veleggia, in direzione del Faro, l’imbarcazione del signor Ramsay.
Le tre parti del romanzo interagiscono perfettamente tra loro, e il fattore connettivo è rappresentato dalla riuscita simbiosi tra l’attività psichica dei personaggi e la realtà esterna. Più che svilupparsi su due piani distinti, il romanzo lascia che i due elementi si integrino, si sovrappongano, influenzandosi a vicenda. E’ sorprendente, ad esempio, come la Woolf segua il corso di pensieri dei personaggi senza per questo perdere mai di vista ciò che essi stanno facendo. Quando la signora Ramsay riflette sullo stato malandato della casa e nel contempo misura la lunghezza del calzerotto sulla gamba del figlio, l’effetto che si ricava non è di semplice parallelismo, ma di vera e propria contemporaneità. Ancora più significativo è il fatto che nel mondo woolfiano l’ambiente e la natura non hanno solo una funzione scenografica e decorativa, ma condizionano attivamente, spesso modificandoli, gli stati d’animo degli esseri umani. “Andavano lì regolarmente ogni sera, quasi per una necessità. Pareva che l’acqua portasse al largo, facesse navigare sull’onde pensieri stagnanti in terraferma, dando così ai loro corpi una specie di fisico sollievo… Sorridevano entrambi, sostando lì. Entrambi sentivano una comune ilarità, eccitata dalle mobili onde; eppoi dalla rapida netta corsa d’una nave, che, dopo aver stagliato una curva nella baia, sostava, fremeva, abbiosciava le vele; e allora… entrambi, al quietarsi di sì rapido moto, guardavan le dune lontane, e invece di gaiezza sentivano calar sull’animo una vaga malinconia: parte perché qualcosa aveva compimento, parte perché il remoto paesaggio sembrava dover sopravvivere per migliaia d’anni (così Lily pensava) allo spettatore, esser già in comunione con un cielo contemplante una terra in estremo riposo”.
I personaggi di “Gita al Faro” sono tutti straordinariamente permeabili all’evocativo potere delle cose, dei suoni e dei colori (al signor Ramsay, ad esempio, una determinata siepe è in grado di far scaturire una conclusione filosofica, un vaso di gerani definire i processi del suo pensiero), così che le loro emozioni nascono prevalentemente da una trasformazione dell’”oggettivo” in “soggettivo”. L’animo umano è una sensibilissima antenna puntata verso l’universo, e ogni minima irradiazione esterna (come il volo di un uccello o la vista di una nuvola) vi si rifrange in una miriade di vivide e indelebili impressioni. Esemplare è la scena in cui “il monotono sciabordio delle onde sulla spiaggia… di solito… accompagnava i pensieri della signora Ramsay con un tamburellio misurato e blando, simile a parole d’antica ninnananna mormorate dalla natura… ma altre volte, a un tratto, inopinatamente,… non aveva senso sì benigno, ma, quasi spettrale rullio di tamburi, batteva spietato il ritmo della vita,… ed ammoniva lei, i cui giorni erano dileguati in rapida successione di doveri da compiere, che tutto era effimero come l’iride”.
L’essere umano può essere definito, generalizzando ciò che la Woolf dice riferendosi alla signora Ramsay come “una spugna imbevuta di emozioni”. Il suo rapporto con le cose non è però, come potrebbe sembrare a prima vista, un fenomeno involontario o inconscio, ma è il risultato di una ben precisa, ancorché non del tutto decifrabile, tendenza, quella di “volgersi in solitudine verso le cose, le cose inanimate – alberi, torrenti, fiori -, come a forme d’espressione, col senso d’assimilarle, d’esserne inteso, di farne parte”. In questa brama di autoannullamento l’uomo esprime soprattutto il desiderio di stabilire un rapporto pacificato con la realtà e di ottenere una risposta ai quesiti esistenziali che lo assillano, come se egli intuisse che se solo fosse in grado di mettere insieme le cose come parole in una frase esse sarebbero capaci di svelare l’inafferrabile mistero della vita.
Anche la fede nelle cose, così come la fede nella memoria, è destinata però a venire presto disillusa. Virginia Woolf non lo dice chiaramente, neppure a mezze parole, ma lascia intendere che l’unico mistero che le cose custodiscono è la precarietà dell’uomo, la mancanza di senso della vita, la fuggevolezza del tempo. Il sogno che la felicità prevalga, che il bene trionfi, e la speranza di trovare nella natura una spiegazione sono qualcosa di ingannevole, sono solo i riflessi di uno specchio che ogni uomo porta dentro di sé e che deforma le sue percezioni reali. Il senso di inquietudine che si affaccia talvolta nei personaggi di “Gita al Faro” è la malinconica intuizione di questa verità negativa: “«Tutto è finito», pensò la signora Ramsay, mentre gli ospiti entravano… le sembrò che sulle cose fosse caduta un’ombra la quale, cancellandone il colore, gliele mostrasse nel loro aspetto più vero”. Quando poi lo specchio si infrange del tutto, la contemplazione delle cose, che prima sembrava promettere la salvezza, diventa intollerabile: all’uomo, tradito dalla vita, non resta forse che sperare nella morte.
I personaggi di “Gita al Faro” si sforzano in continuazione, con patetica fiducia, di aderire alla vita, ma fra loro e la realtà si frappone sempre uno scarto, una piccola, insanabile frattura: il signor Ramsay cerca la Verità ultima e indiscutibile, ma è consapevole di non essere in grado di arrivare fino in fondo (cioè alla lettera Z, lui che è giunto con immensi sforzi solo fino alla Q); la signora Ramsay si avvicina maggiormente a un armonico accordo con la realtà, ma la sua premonitrice paura di vedere distrutto da un momento all’altro il suo equilibrio (“ma non può durare” è il suo pensiero ricorrente) le impedisce di raggiungere una autentica felicità; Lily Briscoe, infine, tenta di trasferire sulla tela il mondo intorno a lei, di tradurre concretamente il sublime riflesso che le cose proiettano nel suo animo, ma lo sforzo artistico è palesemente inadeguato e solo qualche misero, imperfetto avanzo della sua visione può essere fissato per sempre nel dipinto. In un romanzo ricco di simbolismi (basti pensare al Faro, che, dopo essere stato per lungo tempo un luminoso e irraggiungibile punto di riferimento, alla fine del libro appare a James come “una torre nuda sopra una squallida roccia”), il quadro di Lily rappresenta certamente lo sforzo di estrinsecare il proprio io, il tentativo di aprirsi al mondo, in parole povere la vita umana, la quale riesce quasi sempre molto diversa da ciò che si vorrebbe essa fosse, vuoi a causa della distruttiva consapevolezza che “non si può esprimere ciò che si pensa” vuoi per il fatto che in questo sforzo di conoscenza l’uomo è necessariamente solo (Lily, ad esempio, difende strenuamente la sua intimità, pur sapendo che, in fin dei conti, da essa non riceverà in cambio che solitudine e infelicità). Se la grande rivelazione è irraggiungibile o non esiste affatto, al suo posto, nella ripetizione infinita della natura che l’uomo chiama tempo, egli trova solo brevi istanti di visione, “piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio”. Quella della Woolf può essere definita, a mio parere, come una vera e propria poetica del momento. “Quel momento appariva estremamente fecondo. Ed ecco, la signora scavava una buchettina nella sabbia; eppoi la ricopriva, come per racchiudervi la perfezione di quel momento. Ed esso era pari a goccia argentea, che rendesse luminosa, irrorandola, l’oscurità del passato”.
Solo quegli istanti di accecante perfezione possono dare un senso alla vita, e su uno di essi (la visione che permette a Lily di terminare il quadro) si chiude il romanzo. Non bisogna però credere che la conclusione di Virginia Woolf sia del tutto serena e rassicurante. Ricordiamoci che alla fine della prima parte c’è un analogo momento di appagamento, quando la fusione tra i commensali che si sono riuniti intorno alla tavola di casa Ramsay è finalmente completa: “(La signora Ramsay) si librava, come un falco sospeso sull’ali, come bandiera sventolante, in un elemento di gioia che compenetrava ogni fibra del suo corpo soavemente, senza strepito, quasi solennemente: esso proveniva… dal marito, dai figli, dagli amici; e, levandosi in quella profonda pace…, sembrava fluttuare, senza special motivo, come un fumo, come un vapore esalante verso l’alto, e racchiudere la comitiva in un’atmosfera di sicurezza. Non occorreva dir nulla; non c’era da dir nulla. Una placida gioia era diffusa intorno, ricingeva tutti”. Eppure qualche pagina dopo c’è la triste, dolente elegia di “Passa il tempo”, in cui assistiamo all’implacabile distruzione di questa visione da parte del tempo. La vita – sembra dirci la Woolf – è una sommatoria di momenti, alcuni insignificanti, altri importanti, altri ancora addirittura decisivi, ed essi sono indubbiamente l’unico motivo per cui valga la pena di vivere; ma alla fine – e questo è forse l’unico grande, doloroso mistero dell’universo – il risultato per tutti dà sempre, sconsolatamente, zero.
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Tempo perduto e ritrovato.....ù
La famiglia Ramsey, otto figli sempre critici soliti raggiungere il rifugio inespugnabile delle proprie stanze, il signor Ramsey, meschino, vanesio, egocentrico, viziato, timoroso dei propri sentimenti, un tiranno, la signora Ramsey, una donna che possiede la fiaccola della bellezza, spesso silente perché non c’è nulla da dire, con l’ impressione di essere una spugna intrisa di sensazioni umane, che sa senza avere appreso.
Lui e’ quello famoso, voluto, ricercato ma tutti si rivolgono a lei naturalmente, in quanto donna e necessaria. Una solitudine, la sua, alla costante ricerca di equilibrio, spesso indignata ed angosciata, mentre i figli crescono, il tempo scorre, e si trova a reggere con imperturbabile calma destini che assolutamente non capisce.
Vive un rapporto speciale con il figlio James, le piacerebbe conservare ed accudire un bimbo piccolo per sempre, ma sa bene che i bambini non dimenticano e quanto sia importante ciò che si fa e si dice loro.
Una gita al Faro prospettata, attesa, sempre rimandata, rincorsa per dieci lunghi anni, quel venerando Faro austero e distante, epicentro di illusioni, ricordi, rimpianti, ora immobile e vicino, ora distante e lontano, un raggio di luce divenuto il proprio raggio.
E poi la vita, sorprendente, inattesa, sconosciuta, impressioni deposte dal tempo nel cervello senza potersi opporre alla fertilità ed alla indifferenza della natura, a tutte le sensazioni vissute, in solitudine, a momenti di cui è fatto ciò che rimane per sempre.
Una vita spesso spaventosa, ostile, pronta a colpirti e così, anni dopo, quella dimora è stata abbandonata, disertata, coperta da un’ ombra di morte ed indifferenza mentre una lunga notte sembra esservisi insediata per sempre.
Ora possiede il volto dei superstiti e di chi l’ ha frequentata per anni, relazioni iniziate ed interrotte nel cammino della vita, immagini ancora vivide, ricordi sbiaditi, un nome urlato nel silenzio per riesumare una vecchia presenza, ma la signora Ramsey, che aveva programmato tutto, è morta, e le cose sono cambiate.
Il signor Ramsey conserva la propria imperturbabile presenza-assenza, poco interessato agli altri ed agli eventi, immerso, come sempre, in pensieri e parole, mentre i figli, ormai adulti, continuano a guardarlo, con attimi di indulgenza, ed Il Faro, una volta raggiunto, potrebbe rappresentare l’ epilogo desiderato ma, come sempre, sono i ricordi, i sogni, ed il fluire del tempo ad esprimere la pura essenza.
Un romanzo memorabile, il capolavoro della grande autrice inglese, una caleidoscopica rappresentazione ed interrogazione sul senso primario della vita, sulla natura delle cose, in un viaggio oltre il tempo, in una dimensione parallela, un soffio intriso di dolore e vuoto esistenziale .
Una scrittura densa, ricca, che abbraccia una profondità intellettiva unica e stupefacente in una perfetta fusione tra stile e contenuto, come solo i grandi autori sanno pensare e rappresentare.
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Il cerchio della vita
Romanzo tripartito: “La finestra”, “Lo scorrere del tempo”, “Il faro”. Una gita negata, una gita imposta a chiudere un ventaglio di possibilità, un immaginario non compiuto, a sintetizzare ciò che si vorrebbe e ciò che si ha.
Prova magistrale e a livello stilistico e a livello contenutistico.
Siamo dentro una famiglia, un uomo e una donna opposti per vedute, per atteggiamenti, per sensibilità eppure complementari. Otto figli. Siamo in vacanza con loro, a ridosso di uno scoglio con faro: la meta ambita, vagheggiata ma al momento inarrivabile. Siamo con i loro ospiti, ne cogliamo i pensieri anche se è facile confondersi nello scoperchiamento neuronale messo in scena dalla tecnica del flusso di coscienza. Siamo però soprattutto coinvolti da lei, la vera protagonista, il faro della famiglia: la signora Ramsey. Il suo pensiero subitaneo, ratto, ineffabile è lucidamente creato e rappresentato nel suo divenire, il suo turbinio la avvolge , la mente sconvolta. Restituire quei pensieri così intimi, così femminili, così a tratti cupi e malinconici, è pura maestria. Fa paura, perfino. Come è riuscita la Wolf a rappresentare questa velocità, questa ineffabilità, questa verità? Probabilmente attingendo da un serbatoio di viva sensibilità, dal suo humus intellettivo, dal lavorio incessante della sua mente eccelsa.
Di che cosa parla il libro? Dei nostri pensieri, della nostra consistenza, del nostro mistero. Del sogno, dell’ambizione, dello scontro tra ideale e reale e del loro possibile incontrasi. Del tempo e della sua circolarità, dell’attribuzione di significato a eventi e persone e della loro comprensione reale quando tutto è già passato. Ci si ritrova chiunque , in qualità di essere umano. Perfetta fusione di stile e contenuto per un’opera la cui piacevolezza risiede nella sua fine sensibilità.
Adatto a tutti i naviganti, anzi vivamente consigliato.
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Flussi
(E' la prima recensione che scrivo, non credo nemmeno si possa definire tale, ma voglio provarci. Cogliere spoiler qui non è difficile.)
Una storia intrisa di sentimenti e passioni, un invito silenzioso a un viaggio che si consuma nell'attesa di quello più sofferto, della meta finale. Il destino di alcuni prevede, anticipandola, un'altra destinazione, la più ovvia, la più naturale. La vita scivola tra le dita, sia che scrivano o che dipingano, o che semplicemente si muovano, così che continuino a fare di essa l'arte di un poeta, di una pittrice, di una semplice donna che, seduta accanto al figlio, alla finestra, lavora a maglia.
Questa vita si concentra dopo 10 anni alla meta, ormai raggiunta, che è il Faro, dove si mostra per quel che è: una continua resistenza al tempo che scorre così come scorrono le dita su una tela o su un foglio bianco, una sfida ad accettare ogni epilogo, un quadro da finire.
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Il faro della mente
(Attenzione spoiler)
Questo romanzo della Woolf mostra chiaramente come la trama abbia un'importanza secondaria rispetto all'introspezione dei personaggi. Ho notato che ciò viene esaltato anche graficamente dalla Woolf, la quale enuncia in modo del tutto casuale le azioni che fanno progredire il racconto ponendole di sovente fra parentesi, mentre pone in rilievo il significato recondito che queste azioni hanno sui personaggi.La trama proprio per questo appare delineata mentre prevalgono i flussi di coscienza. Un aspetto molto importante sono i personaggi di cui noi percepiamo solo l'interiorità in quanto non sono quasi mai descritti fisicamente e appaiono in una conformazione molto comune cioè come una famiglia in vacanza con amici e colleghi presso le isole Ebridi. Da questo impianto fortemente autobiografico si dipartono le riflessioni dei vari personaggi dal forte impatto psicologico. Due dei personaggi più importanti sono i coniugi Ramsay. La signora Ramsay è il personaggio di maggiore rilievo anche perchè lei si identifica con il Faro che è il tema principale del libro. Una delle sue caratteristiche è la bellezza dinamica: infatti, la sua bellezza a tratti emerge, a tratti s'inabissa, scompare un po' come la luce del Faro che non sempre è visibile. Lei è un personaggio che razionalizza la confusione di tutti gli altri personaggi, la sua visione del mondo non è del tutto positiva, infatti teme per i suoi figli, teme la loro infelicità quando ormai diventeranno adulti. Infatti, la signora Ramsay cerca sempre di addolcire la realtà, di confortare i figli, come ad esempio all'inizio, quando pronostica il bel tempo pur essendo impossibile che tale condizione si realizzi, oppure si nota quando supporta il marito che ha bisogno di sentirsi apprezzato come intellettuale. Inoltre mi ha molto colpito una frase che ricorre nellla prima parte del libro, cioè l'abitudine della signora Ramsay di lasciare le porte chiuse ma le finestre aperte. Le porte infatti, vanno chiuse per impedire che qualcuno a livello metaforico violi la psiche rappresentata dalla casa, mentre dalle finestre entra l'aria, le immagini e i profumi. Le finestre da cui la signora Ramsay osserva il mondo circostante come se fosse lei stessa il Faro, attraverso i suoi occhi mette in luce i vari personaggi ma lei appare quasi sempre in ombra. L'unico momento in cui è illuminata dalla luce è quando il raggio del Faro si posa su di lei, ma se il Faro è un simbolo di sè stessa, ciò vuol dire che brilla di luce propria. Il signor Ramsay rappresenta ciò che è maschile, il padre, duro, tirannico,severo, che educa i suoi figli seguendo il principio della verità, non addolcisce la realtà e per questo non è apprezzato dai figli. Tuttavia egli stesso si presenta con i suoi sogni intellettuali e con le sue illusioni che la signora Ramsay capisce immediatamente arrivando a sentirsi addirittura superiore a lui. Il loro rapporto è complesso, a tratti giudicato perfino antiquato ma sempre basaro sulla dipendenza del marito alla signora Ramsay. Un altro personaggio importante è Lily Briscoe nella quale molti studiosi vedono la figura della scrittrice e rappresenta una spinta innovativa nel modo di rapportarsi al mondo e alla vita, rispetto a quello della signora Ramsay che vorrebbe vedere tutti sposati e tende a organizzare i matrimoni. Lily, invece rimane zitella e viene descritta fisicamente attraverso gli "occhietti cinesi e faccetta avvizzita" che la caratterizzano come un personaggio poco attraente ma di sicuro molto interessante. Cerca di assimilare i gesti della signora Ramsay ma alla fine non riesce a comportarsi come faceva lei nei confronti del vedovo Ramsay e la sua pietà rimane inespressa proprio perché lei non riesce ad accettare la morte di quella che simbolicamente è la madre di Virginia e solo verso la fine riesce attraverso la tensione mentale e quando ormai il Faro non si vede più a completare il suo quadro. Ciò simboleggia la sua accettazione e solo quando il signor Ramsay giunge al faro con i suoi figli, Lily raggiunge questa consapevolezza. Gli altri personaggi sono i figli, in particolare emerge James che si presenta subito come un sognatore, un bambino che ama ritagliare le figure, un artista che si contrappone alla tirannia del padre. Il suo desiderio è quello di andare al Faro ma nell'ultima parte del romanzo ciò gli viene imposto dal padre che invece nella prima parte del romanzo si oppone con tutto se stesso alla gita. La seconda parte del romanzo è quella più breve ma è importante per la trama perchè muore la signora Ramsay e due dei suoi figli, per la precisione gli emblemi della bellezza(Prue) e del genio(Andrew). La loro morte è citata di sfuggita, messa tra parentesi, appare quasi più importante la condizione di desolazione in cui versa la casa, abbandonata e viene messa maggiormente in luce la forza distruttrice della natura, che sembra quasi inghiottire quella casa già decadente che di notte richiama i suoi abitanti e che viene strappata appena in tempo alla forza della natura. Lo stile della Woolf si basa principalmente sul flusso di coscienza che ben si adatta alle tematiche del ricordo, della memoria, del passato. Ogni elemento, oggetto, a partire dalle figurine ritagliate da James, al Faro si carica di un significato psichico, diventano immagini che s'imprimono nella mente, simboli dell'inconscio collettivo e personale. Infatti, lo stile della Woolf è sicuramente influenzato dalle scoperte psicologiche di Freud e Jung e dalla scoperta dell'inconscio. Molto spesso insiste sulle stesse frasi, sui medesimi termini o citazioni per sottolineare la ciclicità,la ripetizione, l'immutabilità di alcuni punti e di alcuni aspetti. Tra l'incipit e il finale ci sono delle strette correlazioni, perché creano una sorta di nucleo in cui il racconto si chiude come se fosse un anello: la gita al Faro si compie anche se qualcosa è cambiato nei personaggi e il quadro di Lily viene completato dopo lunghe fatiche. In conclusione, posso confermare le mie opinioni iniziali sul romanzo e sottolineare la bellezza dello stile che appare ricco e semplice contemporaneamente e pertanto, secondo i miei personalissimi canoni rasenta la perfezione
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Il faro che riporta alla luce l'interiorità degli
(Attenzione: spoiler! Per quanto mi riguarda non guastano comunque la lettura del libro).
"Gita al faro" è il primo libro che leggo di Virginia Woolf e sono certa che sarà seguito da una lunga di serie di altre opere di questa fantastica autrice. Già dopo aver sfogliato poche pagine ho subito capito che sarebbe stato un romanzo che mi avrebbe suscitato forti emozioni e che non avrei mai dimenticato, e così è stato. E' difficile scrivere un'opinione su un'opera tanto perfetta sotto ogni punto di vista: la raffinatezza stilistica che conferisce alle frasi quel suono vago e fluttuante tipico delle poesie; la semplicità di una storia che non è fatta di eventi complessi e sviluppi intricati, ma dai pensieri mutevoli e dall'interiorità misteriosa degli esseri umani, dalle loro paure, dal loro senso di insoddisfazione e dal loro modo di vedere il mondo che li circonda. Quasi nulla accade concretamente, perché i protagonisti del romanzo non sono individui ma idee, sensazioni che viaggiano liberamente attraverso il tempo e raccontano così una storia infinita e fluttuante, come le onde del mare che separa l'abitazione dei Ramsay dal faro. Tuttavia il lettore avverte l'orrore della guerra, la sofferenza della morte attraverso l'avvicendarsi delle stagioni, la Natura che, imperturbabile, continua ad evolvere, a fare il suo corso, mentre l'uomo sembra paralizzato, immerso in una realtà dalla quale vuole fuggire, alla ricerca di un'identità che non riesce più a trovare perché ormai lo specchio su cui era solito contemplare il suo riflesso si è rotto: il mondo è in frantumi e le poche certezze che possedeva sembrano essere svanite per sempre.
Ogni personaggio emerge perfettamente attraverso una parola, uno sguardo, un movimento che delinea la sua personalità in modo eccezionale. La signora Ramsay, con la sua elegante bellezza che conquista chiunque la osservi anche solo per un istante e che potrebbe essere ammirata per mesi o decenni perché non è quella bellezza esagerata, eccentrica che tende a sopraffare, ma è delicata, antica e nonostante ciò, senza tempo. Una donna che si serve del proprio fascino per tenere unita la famiglia, per rendere la vita un po' meno amara e la casa più confortevole. Tuttavia la signora Ramsay non è solo questo, anche se gli ospiti e lo stesso signor Ramsay sembrano ignorarne completamente il lato intellettuale, anche lei ne possiede uno articolato e misterioso. Colei che non fa altro che pensare al matrimonio ma che brama segretamente un'eterna giovinezza ogni volta che si ferma ad osservare il figlio prediletto, James; colei che probabilmente non crede in Dio ma che inaspettatamente, ha dato ai due corvi dei nomi che appartengono alla tradizione religiosa, Giuseppe e Maria; colei che tenta di fissare degli attimi, dei brevi istanti nel flusso irrefrenabile della vita, celando le proprie profonde riflessioni dietro un semplice lavoro a maglia.
Dall'altra parte emerge il marito, un uomo che appare come un tiranno con la sua autorevolezza e con quella superiorità intellettuale che lo rende forte ma vulnerabile al tempo stesso perché lo costringe a soddisfare un'aspettativa che non sempre è in grado di sopportare. Dietro quella maschera di sicurezza impenetrabile, il signor Ramsay nasconde un'anima fragile, incerta sulle proprie reali capacità e ricca di amore e ammirazione per una moglie bellissima. I due coniugi comunicano con un linguaggio fatto di sguardi che, tuttavia, non riesce a renderli mai completamente consapevoli del sentimento di affetto e stima che provano l'uno per l'altra. Ad osservarli dall'esterno, con i suoi piccoli occhi orientali, c'è Lily Briscoe, una donna che preferisce l'arte al matrimonio e che continua a provare una dolce invidia per la signora Ramsay anche dopo la sua morte. Lily che è pervasa da un lacerante senso di inadeguatezza e perseguitata dalle parole taglienti di Tansley, il quale afferma sarcasticamente che le donne non sono in grado di scrivere né di dipingere. Nonostante ciò, Lily non potrà mai smettere di essere un'artista, perché l'arte è qualcosa che è indissolubilmente legato alla nostra anima e nessuno può liberarsene; pensare all'albero che dovrà disegnare per completare la sua opera, è fonte di conforto, le dà sicurezza in quelle situazioni in cui si sente diversa, isolata dalla realtà che la circonda. Quel dipinto che terminerà solo dopo anni, quando ormai nulla è più come prima, è una massa indistinta di colori ed emozioni che esprimono perfettamente l'evoluzione disordinata e caotica delle vicende dei Ramsay. La gita al faro impedita dalla pioggia, dopo la guerra, dopo l'abbandono della casa, dello scialle verde che continua ad ondeggiare mosso dalla brezza, giungerà a compimento solo alla fine per volontà indiscutibile del signor Ramsay. Così, mentre il tempo sembra essersi fermato, congelato per anni in quella casa, mentre il resto del mondo combatteva contro il nemico, quando il ghiaccio finalmente si scioglie e il signor Carmichael sta ancora leggendo con il calore emanato dal suo lume, Lily si rende conto che in realtà niente è più come prima. Non le resta che pensare al dipinto, per completarlo, consapevole del fatto che, anche se rimarrà chiuso in una stanza, ricco di polvere e oscurato dal buio, sarà comunque una forma d'arte e in quanto tale eterna, sopravvivendo a quella bellissima donna che invece era destinata a perire.
Potrei spendere fiumi di parole su questo incredibile romanzo, ma rischierei di inoltrarmi anch'io in quelle acque misteriose che separano la terra dal faro, quello stesso faro che nei giorni di sole o di tempesta rimane sempre lì, immobile, gettando una debole luce sull'interiorità dell'uomo, sui suoi desideri nascosti, perché è questa la caratteristica che accomuna tutti i personaggi: ciascuno di essi con atteggiamenti e idee differenti, porta dentro di sé un lato della propria anima che non mostra a nessuno, un senso di insicurezza che emerge impercettibilmente dalle sue azioni ma che tenta ad ogni costo di seppellire nelle terre più profonde del proprio io, forse perché ne prova vergogna, o forse perché ne è troppo geloso per condividerlo. In ogni caso alla fine ci troviamo di fronte alla storia di esseri umani con i quali è inevitabile identificarsi, perché manifestano la stesse debolezze e le stesse virtù di qualsiasi uomo di qualsiasi epoca.
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Estrema bellezza stilistica
Cosa aspettarsi dalla lettura di un titolo come “Gita al faro”?
Forse è meglio cominciare col dire che cosa il lettore non debba aspettarsi; ossia una narrazione ricca di eventi, di accadimenti, una trama articolata in una storia appassionata e scandita da un ritmo veloce.
Il romanzo della Woolf è una prova di scrittura che si incanala in una ricerca espressiva e stilistica del cosiddetto flusso di coscienza.
E' una narrazione in cui domina una apparente staticità; la trama in sé è eterea, gli accadimenti rari e sfumati, eppure il tempo passa e mostra i suoi segni non attraverso gli eventi ma nell'anima dei personaggi.
Il tempo è l'oscuro soggetto sotteso alla narrazione; il tempo dapprima immobile, si palesa nella seconda parte della storia. I protagonisti e le loro aspettative mutano con lentezza eppure con decisione negli esiti finali.
Un romanzo di un'estrema bellezza stilistica, il cui impatto può destare perplessità ed una sorta di diffidenza per le sue caratteristiche di impalpabilità e nebulosità; nella fase iniziale assume quasi il sapore dell'incompiutezza per poi avvolgersi con grazia e sottigliezza verso una collocazione studiata di tutte le tessere del mosaico.
Una Woolf da conoscere senza dubbio, la quale pur accogliendo gran parte delle influenze letterarie e filosofiche del suo tempo, tuttavia si impegnò nel rielaborarne contenuti e dare ad essi forma narrativa.
Una lettura adatta a chi non ha fretta, a chi possiede la pazienza di centellinare le frasi, a chi vuole fermarsi a respirare una boccata di aria fresca delle isole Ebridi, a chi ha la capacità di percepire anche le parole del silenzio.
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IL POTERE DEL TEMPO
Virginia Woolf si legge per il suo stile sublime e penetrante al tempo stesso, ma va considerata nel suo contesto storico che, per noi utenti frenetici dell’epoca di internet, può apparire lontano anni luce. Solo leggendo con tutta la calma del mondo, si può raggiungere quello stato mentale che permette di percepire ogni singola parola e allora le atmosfere sembra quasi di toccarle con mano e i sentimenti prendono vita nello stream of consciousness. Se si sfogliano le pagine restando con i piedi oltre il Duemila, lo stile può apparire a tratti lento e ripetitivo come ripetitivi sono spesso i pensieri umani. Ciò che mi sembra importante puntualizzare è che un autore deve trasmettere sulla carta il pensiero dei personaggi evitando ridondanze che appesantiscono il testo perché, per quanto si possa cercare attinenza con il “reale” per parlare del “reale”, non bisogna dimenticare che un romanzo è pur sempre una forma artistica che va limata e corretta, qui invece a tratti sembra quasi una “prima bozza”, anche se l’intento è proprio quello di ricreare i pensieri umani. Ovviamente, questa è una critica che va bene per i contemporanei, ma che non può essere trasposta al romanzo in questione a causa della distanza temporale e soprattutto dei cambiamenti legati al contesto narrativo. Particolari sono le descrizioni dei personaggi che prendono vita dall’interiorità degli altri, a poco a poco, come loro stessi si percepiscono a vicenda - abilità che hanno ben pochi scrittori.
Non me ne vogliano coloro che innalzano lo stile della Woolf (io stessa l’ho ritenuto “sublime e penetrante”), ma sono convinta che il lettore non abbia bisogno di essere così “imboccato” perché poi si rischia di contare le pagine che mancano alla fine e questo, a mio avviso, non è mai un buon segno.
Ciò che mi resterà nel tempo dopo la lettura di questo capolavoro è la sensazione che ogni parola, ogni gesto seppur insignificante per noi, può essere devastante per qualcun altro.
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Una gita lunga 10 anni.
Inizio con una premessa, non sono un amante dello stream of consciousness, apprezzo i vari scrittori ma non è un tipo di scrittura che mi attrae più di tanto. Ho sempre pensato che lo scrittore bravo è colui che riesce ad esprimere concetti complessi in maniera semplice e il flusso di coscienza è tutt'altro. Ero però incuriosito da Virginia Woolf, scrittrice di cui avevo spesso sentito parlare ma non avevo mai letto, e così ho deciso di partire dal suo romanzo più famoso, "Gita al faro" appunto. Il romanzo è diviso in tre parti, nella prima ci viene presentata la famiglia Ramsey con la figura di riferimento (non che figura chiave di tutto il romanzo) Mrs. Ramsey e i vari amici di famiglia e figli che gli ruotano attorno. In questo primo capitolo la numerosa famiglia Ramsey è appunto ad una gita fuori porta con degli amici e per il giorno dopo è in programma una gita in barca verso il faro. Quando tutto sembra già deciso però Mr. Ramsey decide che la gita non si farà perché per il giorno seguente il tempo non sarebbe stato buono. Questa decisione sconvolge le vite dei piccoli figli e lascia questo desiderio sospeso per ben 10 anni. In questo primo capitolo la figura che emerge è senza dubbio quella di Mrs. Ramsey, che a dispetto delle donne del tempo risulta essere la matrona della famiglia, ha potere decisionale e influenza le scelte di tutta la casa. La sua presenza vicino alla finestra è simbolica, tanto che in futuro, quando verrà a mancare, verrà spesso ricordata. Una figura che rispecchia in pieno il femminismo della Woolf che diventerà in seguito celebre. Nel secondo capitolo, il più breve, la scrittrice ci racconta il passare del tempo, quindi la morte della signora Ramsey (anche se ce lo lascia solo intendere) e la crescita dei vari figli. Fondamentale è il concetto di tempo che passa, infatti la Woolf ci dice che sono passati dieci anni, ma tutto è rimasto immutato, ogni personaggio del racconto ha lasciato in sospeso il desiderio per la gita al faro, ed ognuno vive l'attesa a modo suo. Emblematico è il quadro della giovane Lily Briscoe che aspetta di essere finito per ben 10 anni. Infine c'è la terza parte e cioè quella del ritorno (dopo 10 anni) al faro e la gita che finalmente si fa. Con l'attesa durante il viaggio in barca e lo stupore ma anche la delusione ("è solo una torre di cemento" dice uno dei protagonisti) che finalmente trovano compimento. E anche il quadro della nostra Lily finalmente viene terminato. Un romanzo semplice e lineare, ma profondo nei contenuti. La scrittura come detto non è semplice, spesso sono dovuto tornare a rileggere dei passaggi, ma senza dubbio è uno dei libri migliori della Woolf. Troviamo infatti tutto ciò per cui è divenuta una delle scrittrici più celebri del novecento (flusso di coscienza, figura della donna, definizione del tempo). Se amate Joyce o Proust dovete leggerlo per forza, altrimenti leggetelo se siete curiosi di sapere perché fu rivoluzionaria (come scrittrice e non solo) al tempo.
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Il potere del silenzio
Libro veramente difficile da leggere, perché occorre immergersi in un mondo e lasciarsi anche un po’ trasportare. Non è un libro da aggredire, è un libro da centellinare. Può risultare prolisso, può risultare noioso se un lettore cerca un libro con una storia, con dei fatti. Il suo bello è lo stile, l’analisi dei sentimenti, il lessico utilizzato, le riflessioni che comporta sulla fragilità delle cose e degli affetti che ci circondano. Penso che chi non ama i classici non possa però apprezzarlo. Chi li ama riesce invece a sentire fra le pagine il suono delle onde, il profumo del mare e riesce ad ascoltarne anche i silenzi.
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Andare o non andare al faro? Questo è il dilemma!
Gita al faro di Virginia Woolf
Virginia Woolf narra l’ineffabile in tre atti. Getta chi legge nel cono d’ombra che si stampa tra perplessità e inquietudine.
Per conoscere la mia opinione potrete passare direttamente alla conclusione del commento, decisamente troppo lungo.
PARTE PRIMA – LA FINESTRA
L’obiettivo (il Faro con la maiuscola) svetta da lontano. A volte non si vede neppure (dalla terza parte: “Il faro era diventato quasi invisibile, si era dissolto in un vapore azzurro”).
“… Se fossero andati finalmente al Faro, avrebbe dato quei calzerotti al guardafaro pel suo figliolo (un piccino minacciato di tubercolosi all’anca)”.
Nella “lighthouse” vivono presunti abitanti, “i quali dovevano annoiarsi a morte senza avere da far altro in tutto il giorno che ripulire il fanale, pareggiarne il lucignolo e girellare in un ritaglio di giardinetto”.
Sul faro aleggia il senso dell’insoddisfazione: “A chi piacerebbe esser confinati per un mese intero, e forse più in tempo di burrasche, sopra una roccia grande quanto un campo da tennis.”
Isola di Skye, Ebridi. Molti sembrano essere i riferimenti autobiografici. Alla madre, al padre. Ai fratelli. Alla villa di campagna.
Nella casa di vacanza ci sono, oltre ai genitori, “gli otto tra figli e figlie del signore e della signora Ramsay”, altri invitati e conoscenti.
La narrazione è policentrica, tempificata e atemporale, sempre condotta da ogni personaggio secondo il flusso libero di pensieri e sensazioni. Attraverso le parole.
Centrale la figura della matriarca che incarna opulenza femminile, bellezza, fecondità: “… dinnanzi a lei era il vasto vassoio d’acqua turchina; e il Faro canuto in distanza, austero, fasciato di caligine; e a destra, sin dove l’occhio poteva arrivare … le verdi sabbiose dune …”
La visione del rapporto tra i due sessi è a tratti primitiva: “… Giacomo sentiva la forza di lei divampare per essere assorbita, spenta dal bronzeo spuntone, dall’ardita scimitarra del maschio, la quale iterava colpi spietati invocando pietà”.
La signora Ramsay tenta una ricomposizione del conflitto tra i sessi, quasi a tavolino: “Guglielmo deve sposare Lily. Hanno tanto in comune. Anche a Lily piacciono i fiori. Sono tutti e due freddi, riservati, austeri”.
Per Virginia Woolf il dilemma non è più il classico “essere o non essere” (“Si domandò se il mondo sarebbe oggi molto diverso nel caso che Shakespeare non fosse mai esistito”). Subisce una mutazione genetica e si trasforma in “andare o non andare al faro”. Come dire: dall’essere e relativa negazione, al divenire con il suo contrario. In una specie di ossessione che ricorre fin dalla celebre frase d’esordio: “Sì, di certo, se domani farà bel tempo - disse la signora Ramsay. Ma bisognerà che ti levi al canto del gallo, soggiunse.”
Poi si alternano speranze e dinieghi: “Domani non andremo al Faro; e sentì pure ch’egli avrebbe serbato per tutta la vita il ricordo di quel rammarico.”
E un proposito: “Domattina no, rispose la madre, e promise: Però ci andremo presto, il primo giorno di bel tempo”.
Nella prima parte (La finestra) i personaggi gorgogliano, traboccano in senso cerebrale e rigurgitano la loro dimensione mentale e psicologica. Oltre alla madre, il di lei marito: “Chiedeva così apertamente di essere adulato, ammirato: i suoi piccoli trucchi non ingannavan nessuno”.
E Lily, la pittrice: “Il fulgore di Minta la faceva parere più sbiadita, più insignificante che mai, nel suo vestitino grigio, col suo visetto vizzo e i suoi occhietti cinesi”. L’antitesi della doviziosa primadonna, la signora Ramsay.
Il senso pervasivo del tempo è quello che ispira filosofia (Bergson) e letteratura (Proust, Joyce) coeve. Si traduce necessariamente nel tormento espositivo: “Ramsay si dirigeva verso di loro. Ed ecco si fermava bruscamente per contemplare in silenzio le onde. Ed ecco tornava addietro, se ne andava un’altra volta.”
E nella spontaneità costruita delle immagini: “… tutto ciò che costoro dicevano le appariva come il movimento d’una trota vista in modo da scorgere al momento stesso l’onda e la ghiaia dal fondo, qualcosa a destra, qualcosa a sinistra; cioè come parte d’un tutto …” Questa metafora non ricorda la sublime poesia di Montale?
PARTE SECONDA – PASSA IL TEMPO
Il tempo è ancora protagonista, una dimensione sempre esplorata nello stile unico di Virginia Woolf. Sotto l’oppressione delle minacce storiche. E con l’alea della catastrofe.
“E così era morta la signora, e il signorino Andrea era caduto in guerra, e anche la signorina Prue era morta, dicevano, al primo bambino; d’altronde tutti avevano perso qualcuno in quegli anni”.
La parte seconda è breve, pennellata in modo immaginifico e scenografico, a fotografare il senso dell’abbandono: “La casa fu abbandonata; diserta. Fu abbandonata come s’abbandona una conchiglia sulle dune a colmarsi di sterile sale in luogo della vita perduta”.
PARTE TERZA – IL FARO
Bellissimo, crudelissimo, brevissimo il paragrafo 6. Una parentesi, nel vero senso della parola, che imprime in modo indelebile un momento della traversata “To the lighthouse”:
“(Il figlio Macalister prese un pesce, gli tagliò un quadratino di polpa dal fianco, per farne esca al suo amo. Poi buttò il corpo mutilato, ancor vivo nel mare).”
Finalmente è giunto il momento della gita al faro. La compiono il signor Ramsay e i due figli Giacomo e Camelia.
“Era così dunque il Faro … ciò che egli aveva per anni contemplato dalla baia era una torre nuda sopra una squallida roccia”.
Nulla è più come prima. Nulla. Anche se la pittrice continua a osservare da lontano. Quasi rappresentasse la coscienza oggettiva, l’unità interpretativa della narrazione, il potere estrinseco dell’arte.
E, se la gita al faro si realizza, la sospensione non ha un epilogo. Non lo può avere. Anche se “il quadro era finito, compiuto. Sì, pensò … posando il pennello, e ho avuto anch’io una visione”.
Mi scuso per la lunghezza del commento, ma non sono riuscito a parlare di un’opera come questa in modo più sintetico. Ho scelto volutamente di assumere, in abbondanza, citazioni testuali. Per significare concretamente la difficoltà del testo. La complessità della narrazione. Lo spessore di una storia apparentemente inconsistente, inclassificabile e incomprimibile, che scivola via dalle mani proprio come potrebbe fare il pesce del paragrafo 6.
Virginia Woolf sbalordisce. Incatena. Ti fa fuggire lontano da lei. Scompiglia. La respingi. O ti entra dentro. E, in modo presuntuoso, intuisci quali possano essere alcune ragioni del suo suicidio.
Bruno Elpis
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Alla ricerca del tempo perduto.
Le poesie di Montale.
Non me ne vogliano gli amanti dell'autrice...
Questo è il mio primo approccio con la Woolf e purtroppo non è andato a buon fine. Sono partita a leggere per primo questo libro, che viene considerato dai più come il più maturo e quindi migliore dell'autrice, ma spero davvero non sia così. "Gita al faro" per me è il risultato di un esercizio di stile esagerato ed assurdo, che esula da tutte le regole della scrittura. Ebbene sì... se un romanzo del genere fosse scaturito dalla penna di un autore esordiente qualunque non mi sarei fatta troppi problemi nel dire che la storia ha una struttura sintattica del tutto errata e che l'autore in questione avrebbe dovuto prendere ulteriori lezioni di scrittura, perché così proprio non va. Nel caso della Woolf sembra quasi brutto dirlo, anzi, tale caratteristica viene interpretata come sinonimo di genialità, anziché incapacità di esprimersi, ma, siccome nelle mie recensioni sono sempre stata sincera al 100% nel giudicare i romanzi e nell'esternare la mia opinione anche in questo caso non farò eccezione. Secondo me l'autrice durante la stesura di questo libro aveva troppe idee nella mente e non è riuscita a comunicarle in maniera coerente, il lettore fa fatica a capire OGNI elemento della storia, a partire dall'ambientazione, i personaggi, le relazioni che intercorrono tra loro. La prima parte del libro è sicuramente la più ostica da questo punto di vista, perché non vi è una minima introduzione che spieghi CHI sono i personaggi e DOVE si trovano. Sembra di assistere ad una scena di teatro quando lo spettacolo è già iniziato, sembra che manchi qualcosa di essenziale. E questo non è il solo problema, perché anche la struttura delle frasi è incomprensibile. Dialoghi senza precisare chi è che parla... e poi una raffica di pensieri che saltano da un punto di vista all'altro senza nuovamente precisare chi li esprime. L'esposizione del romanzo è infatti in terza persona ma il narratore è onnisciente, entra nelle menti dei personaggi e cambia punto di vista repentinamente, in maniera molto caotica, senza coerenza alcuna. Mi spiace ma non riesco a trovarvi genialità in tutto ciò.
Altra nota dolente è il contenuto del romanzo. Sapevo già prima di iniziare la lettura che non mi sarei ritrovata dinnanzi a una storia convenzionale, sapevo già che qui la storia è solo un sottofondo sbiadito e che l'elemento fondamentale è l'introspezione psicologica dei personaggi. Giuro, non era un problema, io AMO i romanzi introspettivi, ma in "Gita al faro" sono rimasta molto perplessa anche da questa caratteristica, che invece solitamente mi piace. Non ho mai assistito ad una introspezione così apparentemente complessa, macchinosa, ma che invece si rivela estremamente piatta e priva di contenuti interessanti. Non sono infatti rimasta per niente colpita dai personaggi e dalla loro caratterizzazione, ho trovato i loro pensieri estremamente banali, insignificanti, non mi sono piaciuti neanche un po'. Il personaggio cardine è la madre, la signora Ramsay, che viene vista da tutti (familiari e amici) come una donna carismatica, da amare e ammirare. Beh, io ho invece avuto la sensazione opposta, l'ho trovata scialba, una comunissima moglie e madre dai valori tradizionali, ma anche un po' ottusa e impicciona. (Vedi la scena in cui vuole per forza far fidanzare due dei suoi commensali solo perché la vita matrimoniale è l'unica prospettiva di vita che secondo lei ha un senso... mah!!!)
In conclusione, lo avrete capito, mi sento di bocciare questo libro nella sua totalità assoluta. Sarà anche un capolavoro del novecento... sarò io che non l'ho capito... ma per me è soltanto un romanzo scritto male e dai contenuti ancora peggio. Ciò nonostante leggerò qualche altra opera dell'autrice perché voglio comunque capire se sono io che non riesco a relazionarmi a lei o se è questo libro in particolare a non essermi congeniale.
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Se sarà bello domani
"Si, naturalmente se sarà bello domani":: la gita sottintesa dalla frase che è senza dubbio uno dei più celebri "incipit" nella storia del romanzo ,avrà luogo soltanto dopo oltre dieci anni.
Diviso in tre parti e uno dei manifesti del romanzo modernista e del flusso di coscienza . L'ordine cronologico è bandito, la prima parte della vicenda si snoda lungo due giornate ma più che descrivere quanto accade bada anche a sviluppare i personaggi.Colpisce la pittrice Lily Briscoe, miope, solitaria, vittima di una crisi creativa, colpisce il signor Ramsay, chiuso nei suoi studi e un po' svagato, colpisce James che gioca accanto a sua madre intenta a lavorare ai ferri un calzerotto rosso.La seconda parte, più confusa, riassume dieci anni di vita con poche pennellate e la parte finale ci appare più malinconica anche se il desiderio espresso indirettamente dal bambino James è diventato realtà e la Briscoe ha ripreso tela e pennello.Vagamente femminista la storia contrappone la più rassicurante signora Ramasay alla "trasgressiva" zitella Lily mentre gli uomini della storia appaiono più defilati e un po' deboli
Forse criptico per chi è abituato a una visione più tradizionale del romanzo, è un capolavoro assoluto della corrente di narrazione che adotta il flusso di coscienza.Di sicuro tra i migliori cinquanta libri mai scritti.
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Gita al faro di Virginia Woolf
Con Gita al faro di Virginia Woolf, il romanzo del novecento si arricchisce di nuovi elementi, rispetto a quelli già introdotti da altri romanzieri appartenenti alla stessa epoca. Tralasciando il caso di Joyce, che con il suo Ulisse merita un discorso a sé, molto complesso e articolato, pensiamo a Proust, a Svevo, a Mann: siamo su un piano del tutto diverso rispetto al romanzo storico o a quello d’avventura dell’ottocento. L’influenza delle teorie freudiane ha ispirato i più grandi personaggi novecenteschi, portati all’introspezione psicologica, all’analisi dei sentimenti e dei rapporti interpersonali.
Insieme con Mrs Dalloway, Gita al faro (To the Lighthouse-1927) è l’opera più significativa di Virginia Woolf.
Il romanzo si divide in tre parti: La finestra, Il tempo, Il faro. Ogni parte è strettamente organica all’altra.
La prima si estende per oltre la metà del romanzo e prende spunto dall’abitudine della protagonista Mrs Ramsay, di osservare, seduta davanti alla finestra con un lavoro a maglia, ciò che accade all’esterno della vetusta casa di campagna, e di scrutare con occhio apprensivo le condizioni meteorologiche, con la speranza di poter esaudire il desiderio del più piccolo dei suoi otto figli, Giacomo, di andare al Faro.
La finestra, però, non è solo il luogo da cui Mrs Ramsay osserva l’esterno: essa è anche, metaforicamente, la finestra sulla sua anima, il mezzo che le permetterà di aprire uno spiraglio alla conoscenza di se stessa.
Sin dalle prime silenziose osservazioni della protagonista, il lettore si accorge di essere di fronte ad un personaggio femminile di tipo nuovo e assai più complesso. Mrs Ramsay si afferma subito come una donna raziocinante, sicura delle sue decisioni e delle sue scelte, sicura delle sue qualità, timorosa solo di essere in qualche modo superiore all’uomo che ha sposato, che, pur essendo un rinomato professore di filosofia, appare ai suoi occhi e attraverso i suoi occhi, come una deludente nullità. Qui il dramma d’una donna in bilico tra gli schemi tradizionali che all’epoca relegavano il sesso femminile al ruolo tranquillo di moglie e di madre tra le rassicuranti mura domestiche e l’esigenza nuova e impellente di rivendicare a sé una capacità raziocinante tendente a riconoscerle legittima autonomia.
Se si confronta il personaggio di Mrs Ramsay con quello di Mrs Bennet, creato da Jane Austen in Orgoglio e pregiudizio (1813) , si capisce immediatamente quanta strada si fosse già fatta e come ci si stesse allontanando già ai primi del novecento dallo stereotipo della donna subalterna all’uomo e alla famiglia.
Già Isabel Archer, il personaggio di “Ritratto di signora” di Henry James, aveva in qualche modo, anticipato questa sorta di “rivoluzione copernicana” nel ruolo della donna nella società. Non a caso, poco più di un ventennio dopo l’uscita di “Gita al faro”, Simone de Beauvoir scriverà un saggio bellissimo sul Deuxième Sexe , il secondo sesso, secondo proprio in ordine di dignità esistenziale. La de Beauvoir affermerà che l’opinione corrente ritiene la donna un’ “ovaia, una matrice”.
Il dramma più sentito da Mrs Ramsay è dunque proprio il suo rapporto con il marito, al quale si sente consapevolmente superiore e per il quale non sente, forse proprio per questo motivo, più alcuna attrazione; eppure ella desidererebbe in certo qual modo riportare ordine nelle cose e nei sentimenti, cercando una fusione tra la sfera intima e i valori tradizionali.
In questa prima parte, dunque, la gita al faro diventa quasi un pretesto per portare avanti una storia con pochi eventi. Il gioco delle metafore della Woolf è sottile e raffinato e non crea mai insofferenza nel lettore. Si prenda ad esempio l’analisi che la stessa signora fa dei raggi del faro: ella paragona se stessa al solo raggio che dei tre è fisso e dà sempre luce.
La seconda parte del romanzo è molto breve ed è dedicata al tempo: il tempo, come succedersi di eventi negativi, che includono la morte improvvisa, solo accennata, della signora e di due dei suoi figli. Morte dentro e degrado fuori della casa, abbandonata.
La terza parte intitolata “Il faro” vede il ritorno alla casa di quelli che rimanevano della famiglia e di parte dei loro ospiti, come in un tentativo di riportare le cose indietro, senza speranza di riuscirci. In questa parte il vero grande protagonista é l’Assenza/Presenza della signora Ramsay. Ella è ancora il punto di riferimento, per il figli Camelia e Giacomo che sembrano aver ereditato dalla madre gli stessi sentimenti che ella nutriva per il loro padre, per Mr Ramsay, che cerca ancora di affermare narcisisticamente il suo io e per Lily, l’amica pittrice che finalmente riuscirà a finire in un modo qualsiasi il quadro che era nella sua mente e che era rimasto incompiuto. Ciò grazie alla visione, una vera e propria epifania sulla verità intima della Signora Ramsay e del suo rapporto con gli altri.
L’amarezza più grande rimane quella di Giacomo che da bambino aveva tanto desiderato che la madre lo portasse al faro e non aveva potuto veder realizzato questo suo desiderio, a causa del maltempo, e ora che vi è giunto col padre è deluso. Dunque era così il faro, il mitico luogo che aveva sognato di vedere? “Una torre nuda sopra una squallida roccia”. Perché la realtà è sempre inferiore al sogno.
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indagine nell'interiorità di ciascuno
Tristezza, commozione: è ciò che si prova di fronte all'autobiografia dell'autrice - orfana da bambina, suicidatasi nell'acqua di un fiume... Leggendo Gita al faro, il pensiero non può non andare alla storia crudele della Woolf e cercare nel libro stesso l'accenno a quella depressione fatale di chi l'ha scritto.
Conosciuta per aver introdotto le tecniche stilistiche di indagine nell'interiorità dei personaggi, quali il flusso di coscienza e il monologo interiore, la Woolf mostra in quest'opera tutta il suo genio. Con un inconveniente: un'estrosità eccessiva, un continuo scrutamento dei pensieri di ciascuno che rompono la linearità della trama, rendendo impegnativa la sua comprensione. Il risultato è un procedere della narrazione inintelligibile a molti che, con poco tatto, potrebbe definire il romanzo "noioso".
L'impressionismo letterario dell'anima
Trovo questo tesoro letterario un capolavoro di illuminante riflessione.
Una riflessione che nulla ha a che fare con la natura superficiale dei pensieri e che dunque sprofonda negli abissi di una costante ricerca descrittiva dell'animo umano.
A ricamare lo sfondo del romanzo, che assume le sembianze più d'un flashback narrato da un onnisciente narratore super partes, è di fatti la coscienza dei personaggi, ciascuno dei quali acquisisce la propria peculiare rilevanza all'interno del romanzo.
Particolare sonorità possiede la figura dell'artista Lily Briscoe, attorno alla quale la storia si definisce in una forma precisa, che si colora e si riempie attraverso le pennellate del dipinto che la vede autrice. Lily sembra anche essere un'allegorica coincidenza della personalità emotiva e mentale della stessa Woolf, proprio come in Mrs Ramsay, altra figura di spicco del romanzo, si identifica una eloquente dedica letteraria alla madre di Virginia.
La liricità poetica di Virginia Woolf va conosciuta e studiata, riletta e vissuta più volte, poiché tra le sue parole sempre indovinate e mai casuali esiste una trama soffice ed al contempo complessa, ricca dei significati più disparati ed alti (ed anche altri).
Questo romanzo è breve, ma di una profondità abissale che deve – deve – essere vissuta.
Consiglio a chiunque ricerchi nella letteratura l'abisso misterioso e trasparente dell'anima – la propria e quella dell'Arte.
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capolavoro modernista
"Gita al faro" è uno delle più belle opere del modernismo,nonchè una delle più belle creazioni di Virginia Woolf;la trama è praticamente inesistente in questo breve romanzo,poichè la narrazione si concentra più che altro sull'introspezione psicologica dei personaggi-come vuole appunto lo stile modernista-.Questo lo rende un romanzo non adatto a chi vuole una trama coinvolgente,ma bisogna sottolineare che l'abilità dell'autrice ha pienamente compensato questa caratteristica.
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It's not my cup of tea...
Ecco non voglio mettere in dubbio le qualità della scrittrice...
Però ho trovato la lettura di questo libro esageratamente pesante...
Lo stile è bellissimo, si trovano riflessioni interessanti e indubbiamente "artistiche"
Manca esageratamente di trama il che mi ha reso la lettura di questo libro davvero noiosa...
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Interdetta!
Ho letto questo libro e mi ha lasciato parecchio interdetta...Sono rimasta colpita dalla descrizione della scrittrice nel raccontare il tempo che passa i fenomeni atmosferici la natura il decadimento della casa di villeggiatura da dove si vede il famoso faro destinazione della gita. Non esiste una trama vera e propria all'interno del libro vengono raccontati i pensieri che passano per la testa dei vari personaggi.Questo libro è considerato autobiografico la Woolf ha raffigurato nel signore e signora Ramsey suo padre e sua madre, il primo un tiranno, un burbero, un intellettuale la seconda dolce, raffinata, bella, elegante che si vela di tristezza sia per gli improvvisi sbalzi d'umore del marito (che però lei ama e amerà sempre profondamente) sia perchè è cosciente che la vita è triste, difficile si soffre fino poi ad arrivare alla morte (vede i suoi figli spensierati in quella spiaggia, in quei bei giorni di villeggiatura, ma quei momenti purtroppo non torneranno mai più!). La Woolf con questo libro ha voluto lasciare per sempre in vita sua madre e suo padre dei quali fa un ritratto sorprendente usando il grandissimo dono della sua scrittura lineare e concreta.
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