Gente di Dublino
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Una nazione d'ubriaconi... (?)
Cavolo se è stato traumatico. questo approccio con James Joyce.
Andrò subito al punto: "Gente di Dublino" non mi è piaciuto molto. Sì, perché senza nulla togliere allo stile dell'autore l'ho trovata una lettura pesante; per vari motivi.
Prima di tutto non si fa in tempo a entrare in empatia coi personaggi. Potrà sembrare una sciocchezza, visto e considerato che i racconti non hanno il tempo di tratteggiare bene i personaggi; e può sembrarlo soprattutto in questo caso che i racconti sono tutti brevissimi (a parte gli ultimi due). Tuttavia, vi dò ragione fino a un certo punto. Penso ad esempio a “Cronache Marziane” di Ray Bradbury, in cui c’è un personaggio (Spender) che è rimasto indelebile nella mia memoria, e non è il solo ad avermi lasciato un segno nella testa. Trovo che una raccolta chiamata “Gente di Dublino” abbia come fine principale proprio quello di farci entrare nella testa e nei sentimenti dei dublinesi; che dovrebbero essere loro a dover restare indelebili nella nostra mente a lettura ultimata. Purtroppo non è stato così, almeno per quanto mi riguarda.
E cosa dire della stessa Dublino? Il suo ritratto non è vivido come avrei sperato. Pur non lesinando in descrizioni, Joyce non è riuscito a farmela “vedere”; la città non ha preso vita nella mia mente. Nell’ultimo racconto poi (che probabilmente è anche il più interessante) Joyce diventa quasi irritante: ci descrive per filo e per segno l'atmosfera di una casa privata, delle portate e del proseguimento di una cena mentre abbiamo una Dublino, lì fuori, in gran parte inesplorata.
Ma la cosa che più mi ha infastidito è che, del modo di vivere e d’essere dei “Dubliners”, passa quasi soltanto l'idea che siano ubriaconi. Mio dio; alcool ovunque, in ogni santo racconto. Certo, passano anche cose come l'amore viscerale per la propria terra, la voglia di partire smorzata dalla paura d’abbandonare la terra natia, la rigidezza mentale; ma sono cose soltanto accennate. Se Joyce avesse messo, nel trasmettere queste cose, lo stesso ardore e ripetizione che ci ha messo nel dire che i dublinesi sono una massa di ubriaconi, forse lo avrei apprezzato di più.
Per concludere, "Gente di Dublino" è ben scritto ma spesso prolisso, a volte pesante, ma questa pesantezza non è comunque ripagata da una profondità di contenuti che lasci soddisfatti o folgorati.
Se avevo paura di leggere "Ulisse", ora sono terrorizzato.
“Vi son riusciti. L’hanno abbattuto.
Ma tu Irlanda ascolta:
Potrà ancora il tuo spirto risorger dalle fiamme
Come fenice allo spuntar del giorno
Del giorno che porterà la Libertà
E possa ben l’Irlanda allora
Nella coppa alla gioia alzata mischiare
Un sol dolore: il rimpianto di Parnell.”
RITRATTO DI DUBLINO IN NERO
Il leit motiv di “Gente di Dublino” è la paralisi: ipostatizzata nella paralisi fisica di Padre Flynn nel primo episodio, essa attanaglia, nella forma di paralisi spirituale, la volontà di tutti quanti i protagonisti dei quindici racconti, bloccandone le aspirazioni, frustandone le ambizioni, costringendoli a una vita spenta, ripetitiva e vuota di senso, e privandoli perfino della speranza nel futuro. La città di Dublino (opprimente, uggiosa, ostile) è come l’appendice materiale di questa paralisi, anche se Joyce è bravo nel rendere universale questa condizione umana (basta cambiare i nomi delle strade, e le storie potrebbero essere trasportate ovunque nel mondo). Dove Joyce è senza mezze misure geniale è nell’avere abbracciato nei suoi racconti tutte le fasi dell’esistenza, accomunando in un totale, irrevocabile pessimismo, la fanciullezza alla vecchiaia. In “Gente di Dublino” fin dai primi anni di vita non c’è alcuno spiraglio per sfuggire alla paralisi. Gli ambienti familiari sono squallidi e soffocanti (spesso poi le figure di riferimento sono zii e zie), ma quando i piccoli protagonisti escono di casa per azzardare un’evasione non trovano nulla: la gita di “Un incontro” si risolve in una delusione, l’adolescente di “Arabia” dopo aver agognato per tutta la settimana la visita al bazar cittadino dall’esotico nome vi giunge quando si stanno spegnendo le ultime luci, mentre quando non è la deprimente realtà a sconfiggere i personaggi, e una prospettiva di fuga e di una vita diversa e migliore si presenta all’orizzonte, sono i sensi di colpa, la paura dell’ignoto e soprattutto l’assuefazione al pur scoraggiante presente a impedire ogni cambiamento (”Eveline”). Crescendo la situazione si complica se possibile ancora di più, e matrimonio e figli vengono visti (“Pensione di famiglia”, “Una piccola nube”) come fastidiose zavorre che impediscono una peraltro improbabile autorealizzazione, alimentando in tal modo rimpianti, invidie e vittimistici risentimenti contro il destino, o peggio ancora come gli inermi e passivi destinatari su cui sfogare vigliaccamente le proprie frustrazioni (“Rivalsa”).
In “Gente di Dublino” lo stile di Joyce è ben lontano da quello, trasgressivo e rivoluzionario, che impiegherà nell’”Ulisse” e nella “Veglia di Finnegan”. Esso è al contrario ancora saldamente ancorato ai modelli del romanzo ottocentesco, il che può riservare una sorta di delusione in chi si aspettava una qualche anticipazione dei canoni espressivi della narrativa del nuovo secolo. C’è però una novità profonda rispetto ai racconti di un Flaubert o di un Maupassant: in ognuno dei quindici racconti di “Gente di Dublino” interviene ad un certo punto, nella routine quotidiana apparentemente immodificabile, un qualcosa che fa sì che i personaggi da quel momento in poi non siano più come prima: i critici l’hanno definito una “epifania”, ossia una rivelazione, una presa di coscienza in negativo della propria condizione esistenziale (ad esempio, l’amara scoperta della propria irrevocabile solitudine da parte del protagonista di “Un caso pietoso”). Questo procedimento è del tutto evidente in quello che è il più lungo, complesso ed elaborato racconto di tutta la raccolta, “I morti”. In esso, la riunione natalizia in casa delle sorelle Morkan viene narrata in maniera molto tradizionale, attraverso tutti i rituali – conversazione, ballo, pranzo - di una riunione borghese; ma quando, qualche minuto prima del congedo, il protagonista Gabriel Conroy sorprende la moglie Gretta in commosso ascolto di una musica lontana, scatta un qualcosa che sposta il tono del racconto su un piano simbolico e spirituale (nelle pagine precedenti intuito soltanto attraverso sporadici momenti di inquietudine e di imbarazzo di Gabriel). I remoti ricordi della moglie, che aveva avuto in gioventù uno spasimante che era morto per lei, scuotono Gabriel, facendogli improvvisamente capire (ecco l’epifania joyciana) quanta parte della vita della donna con cui ha vissuto tanti anni gli sia preclusa e portandolo a riflettere malinconicamente sul labile (e qualche volta, come nella nevosa notte natalizia del racconto, impalpabile) confine che separa la vita e la morte. L’immagine della morte ritorna così ancora una volta in “Gente di Dublino”, chiudendo così emblematicamente il cerchio aperto, come si diceva all’inizio a proposito della morte di Padre Flynn, con “Le sorelle”.
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Vivere è come essere già morti
In questa raccolta di racconti Joyce ripercorre le tappe fondamentali dell'esistenza umana, dall'infanzia alla vecchiaia, passando per l'adolescenza e la maturità e concludendo, inevitabilmente, con la morte. Storie di malattia, abuso di alcool, sottomissione, violenza domestica, miseria, lussuria, soprusi. Sullo sfondo una città ambigua ed affascinante, la Dublino a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, con i suoi vicoli ciottolosi, le sue birrerie ed i suoi singolari abitanti. I protagonisti, tutti riconducibili al ceto medio irlandese di inizio Novecento, rappresentano una carrellata di personaggi chiusi nel recinto di una esistenza monotona, incapaci di andare oltre ciò che concerne i bisogni basilari e le consuetudini di ogni giorno. In altre parole, gente che vive pur essendo già morta. "Meglio, del resto, trapassare baldanzosi nell'altra vita, nel pieno della passione, che appassire e svanire a poco a poco nello squallore degli anni". Qualcuno tenta di riscattarsi da questa squallida condizione, scontrandosi tuttavia contro un muro invalicabile che lo costringe ad arrendersi mestamente. Altri preferiscono non provarci nemmeno e arrendersi in partenza al loro ignobile destino, cercando illusorie ed evanescenti consolazioni in piccoli e futili gesti quotidiani. Lo stile è semplice e scorrevole e, ad una lettura distratta e superficiale, gli episodi narrati possono apparire banali e insignificanti. Tuttavia il loro significato va cercato tra le righe, tra sottintesi, metafore e finali che lasciano spazio all'immaginazione. Le storie sono completamente slegate tra loro, eppure le accomuna il fatto di essere tutte parte di un unico grande atto di denuncia dell'autore nei confronti della società e dei valori sui cui si erge. In particolare Joyce sembra puntare il dito contro la politica e la religione, cause principali della paralisi che affligge l'uomo, fonti di oppressione morale, spirituale e materiale da cui la gente comune non ha alcuna possibilità di liberarsi. Non c'è speranza, non c'è salvezza, non ci sono vie d'uscita. La vita è una gabbia che tiene l'uomo imprigionato in attesa della morte. Ma vivere in balìa di una simile esistenza non equivale ad essere già morti?
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Storie di varia umanità a Dublino.
Sono quindici racconti, scritti tra il 1904 e il 1907 e pubblicati nel 1914: sembrano elaborati nell’Ottocento, e ricordano Cechov, un autore che del resto Joyce non conosceva, ma più ancora Maupassant e Flaubert. Sono episodi di vita quotidiana, talora banali, schizzi di situazioni che càpitano tutti i giorni e che coinvolgono gente comune, che conduce una vita normale, con i consueti alti e bassi e con episodi che per lo più restano confinati nell’ambito della routine familiare. Protagonisti sono i “Dubliners”, gli abitanti della città, una città che è lo sfondo delle narrazioni e che diventa la vera protagonista dell’opera : una città apparentemente piatta, senza grandi ambizioni, abitata da personaggi che fanno della “meschinità” degli accadimenti di tutti i giorni una sorta di bandiera per sentirsi vivi, per comunicare tra loro e sottolineare la loro appartenenza ad un corpo vivo e multiforme. Ed ecco scorrere le vicende di due sorelle e di un prete morto dopo la rottura di un calice, l’incontro di due ragazzi con un vecchio e ciarliero barbone, la sorte di un originale bazar, l’Arabia, la nostalgia di Eveline che sogna di fuggire a Buenos Ayres ma che resta imprigionata nel suo sogno, “ il volto esangue come quello di un animale scuoiato”, due amici che millantano conquiste femminili …. E poi ancora i tentativi di una madre per sistemare la figlia, i rimpianti di un piccolo uomo dopo una visita a Londra, le vicende di un umile impiegato, la storia di Maria, destinata al convento, il caso penoso di un uomo incapace di comunicare e destinato alla solitudine … Ma è l’ultimo racconto (“ I morti”) che ci fa capire la grandezza di Joyce. E’ una lunga storia, condita da dialoghi frizzanti e battute ironiche, che descrive nei particolari una riunione conviviale, con tanto di intrattenimento musicale, alla quale partecipano personaggi di varia estrazione sociale, ognuno con la sua storia ed i suoi problemi. La festa finisce, una coppia ritorna a casa e l’atmosfera cambia radicalmente: si capisce che Gabriel ama Gretta, ma lei si perde nei suoi ricordi, rievocando un giovane di cui era innamorata e che una morte crudele le ha portato via. Un’aura nostalgica e malinconica sospinge l’uno verso l’altra, ed entrambi, in silenzio, dalla finestra, guardano il cadere fitto della neve, che tutto ricopre e avvolge nell’oblio … Il titolo del racconto contrasta nettamente con l’atmosfera festaiola di quasi tutta la lunga narrazione, e sottolinea, anticipandolo quello che sarà poi lo schema delle opere più mature dell’autore, cioè la vita dell’uomo e dell’intera umanità. Per entrare nel mondo di James Joyce , consiglio di leggere “Gente di Dublino”, prima di affrontare le opere della maturità ( “Ulisse”, “Dedalus” fino al travolgente “Finnegans Wake”).
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Dubliners, oh Dubliners!
Un rapporto di amore-odio legava Joyce alla sua città natia, scenario ove i racconti contenuti in questa raccolta sono ambientati. Suddiviso nelle sezioni dell’infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica, ciascuna storia ruota intorno a due momenti fondamentali, un primo in cui ogni protagonista – piccolo borghese o di umili origini che sia – è consapevole di vivere un’esistenza meschina dalla quale vorrebbe fuggire e dalla quale è al tempo stesso paralizzato, ed un secondo, quello della “rivelazione” (o epifania) in cui viene indicata agli stessi una via di fuga, un’alternativa alla loro condizione di mediocrità che di fatto non viene intrapresa per fattori sopraggiunti tali da arrestare il proposito liberatorio.
Lo stesso atteggiamento dell’autore si conforma a detta verità; egli infatti si limita a riportare le condotte dei protagonisti senza giudicare, senza mai entrare nel vivo della moralità o immoralità di queste, come un osservatore esterno, come un giornalista che prende nota degli avvenimenti e li riporta per quel che sono. Siffatto dato può indurre il lettore a ritenere il testo freddo, arido, distaccato dalle circostanze, dispatico. In realtà è proprio suddetto corollario a far si che chi legge senta il dovere di immedesimarsi, riflettere ed esternare la propria opinione.
Tra le varie problematiche tema ricorrente in tutti gli elaborati è quello della morte tanto che quest’ultima è percepita quale personaggio principale della raccolta riuscendo altresì a trasmettere riflessioni sulla vita non di poco valore.
“Gente di Dublino” è un testo forse non facile da leggere ma senza dubbio attuale, intriso di tutte quelle speranze e delusioni che quotidianamente l’uomo incontra sul proprio cammino.
Ne consiglio la lettura in lingua inglese, il mio primo approccio con l’opera è infatti avvenuto così e posso dirvi che questa si confà particolarmente tanto alle tematiche trattate che all’apparente disinteresse dai fatti voluto dall’autore. E’ un’esperienza non semplice ma estremamente soddisfacente e capace di far appassionare il lettore ad un testo che in italiano non sempre è apprezzato.
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Le epifanie di Dublino
Gente di Dublino è una serie di racconti pubblicato nel 1914 ed è un ritratto della vita di quel periodo.
Il tema principale di tutti i racconti è la paralisi, che non è altro che il risultato dell'essere legati, secondo Joyce, ad antiche e limitate tradizioni sociali e culturali.
Questo tratto della gente di Dublino culmina nell'ultimo racconto, il più significativo, "The Dead", che già nel titolo si svela. Il senso di ogni racconto è proprio nella sua epifania, ossia quel momento particolare in cui attraverso una sensazione,visiva, tattile o sonora, percettible o meno, cambia tutto il corso della vita del protagonista e di chi si muove intorno ad esso, ed ineluttabilmente direi.
E proprio qui sta tutta l'impotenza dell'uomo, la paralisi appunto.
Evidenti, specialmente nell'ultimo racconto, "The Dead", i temi della morte e dell'incomnicabilità, rivelati dall'epifania sonora di Gretta, quando ascolta quella canzone che le ricorda il suo primo amore, morto; e di Gabriel quando si rende conto, mentre guarda la mogle dormire, che non la conosce affatto.
Il flusso di coscienza e i simbolismi sono la caratteristica principale di Joyce e sono allo stesso tempo le sue difficoltà. CI si avvicina, e si riesce un poco a comprendere un simile scrittore solo con lo studio, almeno così è stato per me! Che, tanto per intenderci, non sono mai riuscita a finire di leggere il suo Ulisse.
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Gente triste, gente sola
Ho avuto la fortuna di visitare la Dublino degli anni 2000 con il sole e devo dire che leggendo i racconti di Joyce sembra che sia passato ben più di un secolo. La città di cui ci parla lo scrittore è fredda, triste, senza speranze. Questi sono racconti di povertà, non solo nel portafoglio, ma soprattutto nello spirito. Personaggi dediti all'alcool, alle piccole truffe, con comportamenti discutibili in famiglia.
Un pò sconcertante all'inizio la struttura dei racconti. Si inizia a leggere quello successivo aspettandosi che sia una continuazione di quello precedente, che in realtà non ha una vera e propria fine. Si tratta infatti in molti casi di episodi di vita, che sembrano quasi buttati lì. Al lettore resta la voglia di sapere che cosa succede dopo. In realtà se lo scopo è quello di darci in modo realistico e crudo uno spaccato della città di inizio '900, meglio non farsi prendere la mano indulgendo in sentimentalismi o in descrizioni troppo dettagliate.
Lettura non semplice, ma che merita di essere intrapresa, dopotutto trattandosi di racconti, si può sempre decidere do piluccare qua e là.
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Epifanie
Impotenza, è questa la sensazione che ho provato terminata la lettura dei quindici racconti che costituiscono “Gente di Dublino”. Ognuno di essi è un’istantanea sulla condizione dell’uomo con le sue miserie, le sue sofferenze e contraddizioni. I personaggi si muovono nella Dublino del secolo scorso e sono accomunati da un’apatia, un’incapacità di prendere le redini della propria esistenza, dall’improvvisa consapevolezza della caducità della vita e dell’inevitabilità della morte. La narrazione di Joyce è assolutamente priva di qualsiasi elemento possa costituire un semplice abbellimento, un orpello fine a se stesso. Il linguaggio pulito, essenziale ma ricco di descrizioni, la quasi totale mancanza di azione, l’aderenza alla realtà mi ricorda la poetica verista. L'autore lascia che sia la quotidianità dei personaggi a raccontarne i sentimenti e le frustrazioni. Tutto è lasciato al suo naturale corso, ogni racconto è uno spiraglio, non ha una conclusione ben definita. Questa mancanza di organicità rende “Gente di Dublino” un’opera di non facile comprensione. Non è certo un tipo di lettura leggera, di intrattenimento, piuttosto è uno di quei libri scomodi, ma necessari, che fa riflettere e mette in evidenza, attraverso le vicissitudini del singolo anche la situazione politica, economica e religiosa dell’Irlanda al principio del ‘900. Occorre andare oltre la superficie del testo per ottenere una visione completa. L'affresco di Dublino, in particolare, è mirabile, ci viene presentata come un’uggiosa città del nord dalle tinte spente e tendenzialmente monocrome, ben lontana dalla verde Irlanda dell’immaginario comune, ma perfetto sfondo alle vite dei protagonisti.
Personalmente, non ho apprezzato allo stesso modo tutti i racconti, forse il mio preferito è stato l’ultimo dal titolo “I morti”, perfetto “requiem” che chiude la raccolta e lascia al lettore una sensazione di triste malinconia che, unita all’impotenza sono le sensazioni che mi hanno accompagnata per tutta la lettura. Credo che Joyce sia uno scrittore che “o lo si ama o lo si odia”. Io, per quanto ammetto di aver trovato la lettura un po’ ostica in alcuni punti, mi sento di consigliarlo.
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Gente di dublino
La Dublino di Joyce è una città priva di ogni attrattiva. Il colore dominante è il marrone, le faccate delle case sono seriosamente rispettabili, il verde sbiadito o marcescente, un fiume mediocre e grigiastro, i pub fumosi punti d’incontro per forti bevitori, solo di tanto in tanto il sole ha un guizzo di vitalità arrossando il tramonto. Malgrado l’aspetto cupo e provinciale che spingerebbe a fuggire a gambe levate, essa esercita un fascino quasi paralizzante sui cittadini che la abitano: schiacciati da una religiosità opprimente e dediti alle convenzioni sociali al solo scopo di apparire rispettabili, sono spiritualmente deboli (o moribondi) e finiscono per girare in tondo come il cavallo citato ne ‘I morti’. Nei quindici racconti - o, sarebbe meglio dire, quattordici più un romanzo breve, ‘I morti’ per l’appunto - i simboli si sprecano, a partire dalla paralisi fisica di Padre Flynn che, sin dall’iniziale ‘Due sorelle’, rappresenta quella morale di tutti i dublinesi: per cogliere tutte le sfaccettature, le storie andrebbero perciò rilette più volte, ma si può goderne anche senza perdersi nelle note grazie alla scrittura prosciugata ma affascinante e alle figure che si delineano col passare delle pagine e finiscono per rimanere nella memoria. Come, ad esempio, il giovane protagonista disilluso di ‘Arabia’, la giovane Eveline del racconto omonimo che rinuncia all’amore per paura della novità, i cinici sfruttatori de ‘I due galanti’ e le speculari cacciatrici di marito in ‘Pensione di famiglia’, il piccolo Chandler e il suo bambino urlante in ‘Una picola nube’, il deprecabile Farrington che scarica sul figlio innocente le frustrazioni della sua vita nel breve noir intitolato ‘Rivalsa’, la concezione della vita di Duffy così rigida da costare la vita alla signora Sinico (‘Un caso pietoso’), la triste vita della brutta lavandaia Maria: Joyce ordina i racconti raggruppandoli per età dei protagonisti - prima l’infanzia, poi la giovinezza, infine l’età matura – indicando che la paralisi resta uguale indipendentemente dall’età dei personaggi. Ci sono poi i tre racconti dedicati alla vita pubblica, con i politici de ‘Il giorno dell’edera’ che si perdono in chiacchiere, la signora Kearney de ‘Una madre’ che sacrifica la propria figlia alla propria ambizione e il disturbante ‘La grazia’ in cui la religione è una patina che serve a coprire i vizi e può giustificare ogni cosa, inclusa l’avidità lodata dal prete simoniaco nella predica finale. Già questo racconto riprende un po’ tutti i temi precedenti e infatti concludeva la raccolta originaria: ora è invece solo una sorta di preparazione a ‘I morti’ che, occupando oltre un quarto del volume, svetta brillante sulle comunque validissime pagine che lo hanno preceduto. Il rito borghese della cena attuale allestita dalle sorelle Morkan è vivace solo in superficie mentre in realtà è solo lo stanco ripetersi di una rappresentazione sociale: altrettanto falsa si rivela la vitalità che pervade il loro nipote Gabriel che, nel momento culminante in cui resta infine solo con la moglie, scopre di essere assai più vicino alla morte (spirituale) e ai morti di quanto potesse pensare. L’immagine spietata del suo vero io che lo specchio gli restituisce cancellando ogni vanitosa fantasia chiude pagine davvero magistrali in un crescendo di emozione che la lingua misurata non riesce a trattenere.
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Dublino una città così piccola
"inveì contro la rettitudine della sua vita; sentiva di essere stato escluso dal banchetto della vita. Un solo essere umano sembrava lo avesse amato e lui gli aveva negato vita e felicità: l'aveva condannato all'ignominia, a una morte vergognosa".
Un'aria pesante si respira tra le strade scure di Dublino. Abitata da uomini che con visi stanchi, flaccidi e vecchi non riescono a liberarsi dall'apatia che li tiene prigionieri per sempre. Con una voglia di volare verso emozioni nuove, costantemente sopita...
L'epidemia di frustrazione contagia ogni abitante, non risparmiando alcun bambino, l'unico antidoto al contagio è andare via dalla città, se si vuole avere successo.
Questa è la Dublino raccontataci da Joyce in 'gente di Dublino' una città "dove non succede mai nulla", che non lascia spazio ai sogni, e le speranze di ognuno vengono soffocate dal senso di oppressione che aleggia nell'aria.
Joyce attaverso i quindici racconti, denuncia la paralisi dei suoi abitanti attribuendo, successivamente, la colpa agli inglesi e alla Chiesa Cattolica colpevole di soffocare l'anima dell'Irlanda.
Se l'intendo di Joyce era di trasmettere al lettore una sensazione claustrofobica, allora va fatto un plauso allo scrittore per essere riuscito nell'impresa.
La mancanza di aria è ciò che costantemente trasuda da ogni pagina, lasciando il lettore sopraffatto da una forza ignota il cui unico scopo è spingere nel baratro chiunque.
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Gente di Dublino
In questa raccolta di racconti, Joyce si propone di rappresentare e analizzare, con un evidente spirito critico, la società del suo tempo.
Dublino fine Ottocento, una città immersa tra le nebbie e le nevi del freddo inverno irlandese, abitanti appartenenti ai diversi ceti sociali avvezzi solamente ai propri interessi, schiacciati da piccole meschinità e ipocrisie, soffocati dalle consuetudini imposte loro dall'ambiente familiare e socio-culturale cui appartengono.
Dall'insieme delle storie narrate si coglie alla perfezione la visione maturata dall'autore sulla propria città, fotografata con schiettezza e con audacia, portando alla luce una società scontenta e annoiata, ma allo stesso tempo priva totalmente di spirito di rinnovamento.
Una società immobilizzata negli schemi voluti dalla posizione sociale, dalla politica, dalla religione, destinata a necrotizzarsi; sulla scena uomini e donne che seppur scossi nella coscienza, tuttavia mostrano di accettare passivamente gli eventi senza tentare una fuga verso un futuro migliore e più appagante.
Un'opera di denuncia sociale, un valido strumento con cui il letterato si proponeva di smuovere le coscienze dei propri concittadini, esortandoli ad uscire da una staticità sociale e morale dilagante.
Leggere queste pagine è come ammirare una tela dipinta con colori tenui, in cui i personaggi sono avvolti da un alone che ne sfuma i contorni, colti con espressioni dimesse e poco reattive; la sensazione che se ne ricava è quella di una desolazione profonda, di un piccolo mondo grigio, di un'umanità malata di apatia.
Con quest'opera, la penna di Joyce riesce a trasmettere al lettore tutta l'amarezza ed il senso di ribellione per un mondo in cui l'autore rifiuta di rispecchiarsi.
E' un lettura che va affrontata con la consapevolezza di imbattersi in uno stile di scrittura datato, lontano dalla freschezza narrativa contemporanea, tuttavia in grado di offrirci un viaggio nel passato di indubbio interesse e ti riflettere sull'evoluzione del mondo e dei rapporti sociali, scoprendo somiglianze e affinità tra ieri ed oggi.
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INETTI
ho provato a riflettere su cosa potesse caratterizzare questa "gente di Dublino", e la risposta che mi sono dato è proprio questa: l'inettitudine. In ogni racconto i vari protagonisti intraprendono un viaggio interiore che termina sempre in un senso di inadeguatezza e di pentimento. che sia rinunciare a partire per l'america, riconsiderare il proprio concetto di amore dopo le rivelazioni dell’amata, picchiare i figli per un'umiliazione subita o scontrarsi con propria solitudine e riconoscere l’ incapacità di condividere i propri sentimenti, nessuno dei personaggi è in grado di dirsi felice di quello che ha fatto o di ciò che lo circonda. lo scopo che ognuno di loro si è posto e le scelte coraggiose che pensavano di dover effettuare per cambiare qualcosa nella propria vita si arrendono di fronte alle usanze di una città cupa e statica. ma sarà veramente colpa delle credenze religiose e politiche di questa Dublino dei primi del novecento? JOyce è partito da ciò che meglio conosceva, la propria città. ma proprio partendo da questa realtà di provincia è stato in grado di mettere in luce quello che non accade solo a Dublino o in Irlanda, ma che avviene ogni giorno in ognuno di noi, e la funzione di questa fredda e pesante capitale nordica è solo quella di una grande cassa di risonanza del silenzio che queste anime trasmettono, influenzandosi vicendevolmente.
Paradossalmente è quello che avviene anche oggi, nel mondo della velocità, della frenesia, dei lunghi viaggi e del cosmopolitismo, mondo in cui il tempo di fermarsi davanti alla finestra per guardarci dentro ci è spesso rubato dalla televisione o dal computer.
quello che si prova nel leggere questo libro è un sentimento di voglia di rivalsa tradita, è la descrizione di una gioventù che si auspica cambiamenti che poi nessuno dei protagonisti è o è stato in grado di fare. è come se i morti citati nel titolo dell'ultimo racconto non fossero quelli che non ci sono più, ma coloro che non hanno vissuto nelle pagine di questo libro, perché ritrovatisi ad essere vittime di rivelazioni che hanno annullato quel fragile senso di esistenza che una città come Dublino o una cena tradizionale dalle zie erano state in grado di proteggere.
Che cosa ha portato queste anime ad affrontare la propria vita in questo modo? di chi è la colpa? di quelli che hanno creato Dublino, o di quelli che si sono arresi nel viverla così come l'hanno trovata? Ammesso che poi di colpa, e non di naturale predisposizione dell’animo umano, si possa parlare.
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LE PAROLE ... CHE PARLANO.
LE PAROLE ... CHE PARLANO.
Il primo e l'ultimo racconto iniziano con dei pensieri sulla morte, mentre lo sguardo dei protagonisti avanza attraverso il vetro di una finestra...Eh si, il tema della morte è ricorrente in molti racconti, in particolare nell'ultimo, il più lungo e che è quello che ho apprezzato di più; forse anche perchè è stato l'unico dove Joyce, un pò meno severo e freddo, ha lasciato che il racconto mi trasmettesse tenerezza , emozione e più partecipazione alla vicenda e al vissuto dei protagonisti.
Il tema della morte, come dicevo è spesso ricorrente e i morti assumono un ruolo predominante nei dettami e nei suggerimenti di vita, ancor più dei vivi.
Joyce è un vero artista nel descrivere gli argomenti dei quindici racconti e l'uso della parola è simbiotico con lo stesso argomento, a tratti semplice, a tratti ricchissimo, con metafore e dettagli particolareggiati e il racconto si snoda e realizza proprio attraverso le parole che sono il significante e il significato nello stesso momento.
I racconti sono lo specchio di una realtà, quella irlandese del primo novencento, in cui spiccano la perdita dei valori spirituali e freme un forte desiderio di cambiamento, che rimane represso e non riesce a tramutarsi in azione.
Nessun atto eroico o romantico...ma semplici sfoghi che non sfociano in null'altro...se non in spiccioli atti dannosi per coloro che vivono accanto ai protagonisti....brulichio interiore di sentimenti e di voler cambiare...ma paralisi nei comportamenti.
E lui stesso, l'autore , talora non sa osare più di tanto...sembra incapace di dire tutto...
E si limita a osservare e a rilevare l'esperienza dei protagonisti attraverso le loro parole, frasi e gesti...e la vita raccontata sembra prendere il ritmo della realtà, che ci viene proposta in modo semplice e oggettivo, mai enfatizzata o ingigantita.
Risulta chiaro che Joyce vuole proporsi come un artista che ritrae la realtà senza porre giudizi personali, ma a mio avviso qua e là serpeggia il suo tentativo speranzoso di far in modo che le sue "fotografie della realtà" diventino per coloro che leggono ( in particolare gli irlandesi) un monito alla riflessione sugli aspetti negativi della società : l'aridità dei sentimenti, la paura di cambiare, l'incapacità di riscattarsi da una realtà opprimente...e molti altri, tra l'altro a mio a avviso, sempre attuali). Un invito a capire di più...a capirsi di più...a migliorarsi
E' per questo che reputo il libro "Gente di Dublino" più che mai attuale, anche se non di facile lettura, perchè in esso , come dicevo poc'anzi, possiamo leggere e trovare speranze e delusioni di vita, realtà che intrappolano e ostacolano la felicità e il fluire armonico della vita.
CONCLUSIONI FINALI:
1) Coloro che hanno competenze linguistiche sanno che chi ha un vocabolario di 2000 parole opprime una persona che ne possiede solo 200...e James in questo supera tantissimi scrittori.
2) Dopo aver letto così tanti racconti in cui prevale l'accettazione del fallimento e un senso di prigionia, mi sovvien la voglia di leggere qualche atto eroico o romantico.
3) Una bella coincidenza: nell'ultimo racconto il protagonista è anche ...un "recensore".
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Dubliners
Una raccolta di racconti scritta oltre un secolo fa... interessante, ma a mio avviso sarebbe stato meglio leggerla in inglese, come ho visto fare a una ragazza sul bus giorni fa. L'italiano della traduzione è piuttosto arcaico, e rende le cose più pesanti di quanto magari possano risultare in lingua originale...
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Gente di Dublino o della rivelazione
Diviso in quattro sezioni:Infanzia,Adolescenza, Maturità e Vita pubblica e ispirato al realismo flaubertiano "Gente di Dublino" è una raccolta di racconti ambientati tutti nella città natìa di Joyce a cui lo scrittore era visceralmente legato in un rapporto di amore-odio simile a quello che Dante nutriva per la sua Firenze.
Piccolo borghesi o di umili origini i protagonisti delle varie storie sono consapevoli della meschinità delle loro esistenze e desiderosi di fuggirne, ma sono nello stesso tempo misteriosamente paralizzati e destinati a perpetrare le loro vite nella medesima monotonia.
Eveline, la diciannovenne protagonista di un racconto è colta dall'autore mentre riflette sulla sua prossima fuga d'amore con il marinaio Frank che l'avrebbe liberata dalla schiavitù del suo padre-padrone e dall'arcigna datrice di lavoro ai grandi magazzini, ma il giuramento alla madre sul letto di morte di tenere in piedi la famiglia la fanno tornare indietro sui suoi passi proprio quando è in procinto di salire sulla nave che l'avrebbe condotta nelle agognate Americhe. La "rivelazione" o epifania che indica ai protagonisti quale strada scegliere è il momento chiave di ciascun racconto.
Piccolo capolavoro è anche l'ultimo racconto ,riassuntivo delle quattro sezioni: I morti, una lunga rivelazione dello stato d'animo di due coniugi quarantenni.
Pensiero indiretto e flusso di coscienza, uso di analessi e niente ordine cronologico sono le caratteristiche principali della tecnica narrativa adottata in ciascuna storia.
L'autore lascia chi legge libero di emettere giudizi e fa muovere in libertà le sue creature letterarie.
Da non perdere per imparare a conoscere uno dei miti della letteratura mondiale
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"Gente di Dublino" di James Joyce
Le storie narrate da Joyce sono di un innegabile realismo, ambientate nella Dublino di oltre cent’anni fa. Uno stile che coniuga perfettamente la fluidità a descrizioni molto dettagliate, ricche di particolari dai quali si evince chiaramente la straordinaria capacità verbale dello scrittore irlandese. Personaggi ingessati nella loro stretta realtà, in contesti immoti, provano a fuggire. In maniera forse goffa, poco convinta e questo li conduce al fallimento. Non c’è tempo per una spiccata empatia, i racconti sono concisi. Joyce vuole porre l’accento sul perbenismo imperante al quale contrappone figure che debolmente provano a uscire da questa logica, a volte anche con comportamenti smaccatamente sbagliati o viziosi (ricorrente il tema dell’alcool). Non è moralista o fustigatore l’autore, non commenta in prima persona, lascia al lettore l’interpretazione nell’alternanza tra discorso indiretto e diretto. Il racconto che chiude l’opera è un capolavoro d’intensità e il film ispirato ad esso ne prova il suo contenuto altamente emozionale
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per lettori molto esigenti
E' un libro che sicuramente andrebbe letto con un approccio colto, se non addirittura scientifico. Lo stile è di quelli enigmatici. E' uno di quei libri che puo' essere letto a più livelli. Se lo leggi con un occhio alla narrativa e' tremendamente noioso e triste. Se lo leggi con un occhio al significato recondido diventa più affascinante, perchè cerchi di domandarti che cosa voglia dirti. Se lo leggi con lo spirito di chi tenta di immedesimarsi nel tempo e nell'ambiente che descrive rivela un grande significato storico e politico.
E' comunque un libro particolare, sicuramente enigmatico. Non puoi leggerlo sul treno o alla sera prima di coricarti, ti farebbe dormire.
Poi ognuno lo interpreta a seconda della sua sensibilità d'animo. A me è sembrato tremendamente triste e mi ha trasmesso malumore. Confesso, non l'ho finito.
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Quindi???
Soporifero! Mi avevano sempre parlato bene di questo libro ma sono rimasto profondamente deluso. Non ho terminato un solo racconto senza poi pensare... quindi??? Insomma mi aspettavo tutt'altra cosa. Sconsigliato!
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