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En attendant Godot
Titolo celeberrimo del teatro europeo del Novecento, “Aspettando Godot” suscitava in me da tempo molta curiosità. L’autore, Samuel Beckett (1906-1989), era irlandese di Dublino, ma la prima pubblicazione e rappresentazione dell’opera, rispettivamente nel 1952 e nel 1953, si ebbe in lingua francese con il titolo “En attendant Godot”; a Parigi Beckett si era trasferito già sul finire degli anni Trenta, partecipando poi attivamente alla Resistenza francese contro l’occupazione tedesca.
Malgrado le prime reazioni non troppo esaltanti ottenute sia a Parigi che un paio d’anni più tardi a Londra, si tratta del lavoro che ha dato forse maggior fama allo scrittore premio Nobel per la Letteratura nel ’69, al quale si aprì così la carriera teatrale. La trama prende avvio su “una strada di campagna, con albero”, come si legge all’inizio del primo dei soli due atti di cui l’opera si compone. Tale ambientazione interamente sullo sfondo di una strada di campagna alquanto desolata non muta sino al termine della vicenda, rimarcando una staticità (non solo di luogo) che finisce con l’avviluppare i personaggi principali, Estragone e Vladimiro, due vagabondi che aspettano un certo Godot, che non conoscono, al fine di ottenere da lui una qualche sistemazione. Sulla scena compariranno in seguito altri tre personaggi, di cui due in particolar modo bizzarri, ma non il tanto atteso e misterioso Godot che non si presenterà né alla fine del primo giorno né a quella del secondo.
Dramma? Commedia? Molto probabilmente entrambe. Senza dubbio, un’opera di estrema complessità interpretativa, nonché di forte innovazione a livello di struttura. “Sul piano del divertimento” scrive Carlo Fruttero, curatore e traduttore del testo nel 1956 per l’edizione Einaudi “si tratta di un vero gioiello, magistralmente congegnato […]. Ma ci vuol poco ad avvedersi che questa non è una commedia spensierata […]”. Innumerevoli possono essere le interpretazioni: da quella in chiave mistico-religiosa a quella dal sapore di guerra fredda, da quella esistenzialistica a quella sociale. Inutile arrovellarsi il cervello in tal senso, poiché tutto può essere.
Per quanto mi riguarda, la lettura non è stata particolarmente coinvolgente come speravo; nel complesso, ho trovato il testo appunto molto difficile da decifrare e, in verità, in alcuni punti abbastanza noioso da seguire, per non parlare del caos di qualche scena, con il sopraggiungere di Pozzo e Lucky, che più che sorridere induce a triste riflessione. Un libro, per me, su cui ritornare negli anni a venire.
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