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Deserto bianco
Mi fermo a tre stelle piene per quanto riguarda questo lungo racconto dell’austriaco Adalbert Stifter (1805-1868), il quale fu autore di poesie, novelle, romanzi e anche saggi, nonché pittore e precettore; di umili natali, ebbe un’esistenza travagliata e una morte alquanto tragica e impressionante (si cerchi, per curiosità, la sua biografia) che stride con la pace e la grande bellezza naturale affiorante nelle pagine del volumetto in questione.
La sua è una scrittura che si mantiene lontana dagli apici letterari del Romanticismo tedesco, così pure da certe elucubrazioni legate al vivere dell’epoca, mostrando un’attenzione tutta particolare verso la quotidianità umile e semplice, le tradizioni, i piccoli mondi antichi d’atmosfera provinciale distanti anni luce dai fasti (e dal caos) della capitale asburgica o di altre grandi città dell’impero.
Testimonia per bene tutto ciò quanto descritto in “Cristallo di rocca”, dove la dimensione per così dire urbana si riduce a piccoli villaggi sparsi su vallate isolate racchiuse tra le montagne.
Scritto a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento e pubblicato inizialmente su un quotidiano di Vienna, questo racconto comparve in versione definitiva nel 1853 all’interno della raccolta “Pietre colorate” (“Bunte Steine”) insieme ad altri cinque testi, tutti intitolati con un nome di pietra.
Sebbene l’inizio dello scritto si perda in lunghe, minuziose descrizioni anzitutto legate alle feste religiose e all’ambiente montano, risultando in generale ben poco vivaci e ancor meno avvincenti, la narrazione si riprende dal punto in cui il lettore può spingersi meglio tra le case e le attività dei paesini di Gschaid e Millsdorf (in Stiria, nell’Austria sud-orientale) e fa così conoscenza con il calzolaio del primo e il tintore del secondo borgo. La vicenda entra con decisione nel vivo con la comparsa dei due piccoli protagonisti, Corrado e Susanna, figli e nipoti rispettivamente dei sopraccitati calzolaio e tintore; al centro del racconto, la loro disavventura alla vigilia di Natale, quando s’incamminano verso Gschaid di ritorno da casa dei nonni a Millsdorf, lungo il consueto percorso che seguivano abitualmente tra le due valli. Ed è proprio da quel momento che la trama, sotto una nevicata sempre più copiosa e con il buio che avanza, ha il sapore tipico di una fiaba senza tempo.
“Ma intorno non c’era che il bianco abbagliante, il bianco e null’altro, e anche questo tracciava intorno a loro un cerchio che si faceva sempre più piccolo e si perdeva poi in una nebbia pallida e striata che inghiottiva e avvolgeva ogni cosa, e che infine altro non era che la neve che continuava a cadere instancabile.”
Smarriti tra i ghiacci sullo sfondo di una natura che si fa a poco a poco inquietante, inospitale e pericolosa per la sopravvivenza umana, i due bambini resistono e non perdono la speranza di ritrovare la strada di casa, sfidando con la loro innocenza il pericolo concreto della morte. La minaccia rappresentata dal ghiacciaio e dal crepaccio, a cui essi arrivano, si stempera tuttavia con lo straordinario fascino di sua maestà la montagna, principale protagonista di queste pagine che si ammanta di sfumature, luci e suoni che Stifter ci narra con passione attraverso una prosa – occorre riconoscerlo – molto curata e nel complesso davvero di pregio.
Una lettura che ben si adatta alle atmosfere della stagione invernale e delle feste natalizie. Una piccolo classico che pone al centro il rapporto uomo-montagna, la sfida delle alte cime innevate che va colta con rispetto e responsabilità, la simbologia della pietra, e non meno la pura semplicità di un mondo e dei suoi valori oggi forse scomparsi per sempre.
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Commenti
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Io, Laura, sono tra coloro che non l'hanno mai letto. Però m'incuriosisce.
Le atmosfere rurali mi piacciono, ma questo libro mi attrae poco.
Tu affermi che siamo lontani dagli apici letterari. Forse nell'immaginario l'ho quindi sopravvalutato.
Una bella lettura!
Sì, credo sia un autore poco letto in Italia. A me, nel complesso, questa lettura è piaciuta; certo, va contestualizzata. Comunque, è un piccolo classico dell'Ottocento.
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