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Tempi migliori (limite mio)
Un ritratto cupo, in bianco e nero, di una società fatta di individui che hanno perso la loro identità e sono ridotti, nel nome - vengono chiamati “Mani”- e nei fatti a una massa produttiva e senza diritti. Vivono dentro le fabbriche e sono uno sfondo necessario ma non protagonista di una realtà grigia e tetra, Coketown, immaginaria cittadina industriale dell’Inghilterra dell’800; non li vediamo infatti mai protagonisti della narrazione, se non in una scena corale, di massa, appunto che li vede quasi spettatori passivi del destino di uno di loro, Stephen Blackpool, già emarginato da una scelta sindacale non gradita ai più: non la lotta ma il delicato e necessario compromesso con i padroni.
Eppure, “Tempi difficili”, non racconta e non rappresenta la plebe urbana all’ombra delle ciminiere, se non indirettamente, esso infatti fa protagonista la critica a un modello economico e di pensiero, quello incarnato da Thomas Gradgrind, che mira ai fatti, alla razionalità, all’interesse personale ma che devia in un pieno insuccesso educativo. Molto attuale, se riflettiamo sulle attuali pressioni che vengono esercitate sui nostri giovani sulla scia di un modello di sviluppo economico insostenibile, in tutti i sensi. I suoi due figli, castrati nell’immaginazione e nel pensiero, Tom e Louise, falliranno come persone, la prima sentendosi costretta e accettando un matrimonio con un ricco industriale molto più vecchio di lei, Josiah Bounderby, amico del padre; l’altro, denominato a più riprese il “botolo”, un ribelle, spingendosi oltre la legalità.
Opera della maturità, acclamata come capolavoro, è stata invece per me una lettura faticosa, trascinata a lungo, con una sezione centrale particolarmente lenta; uno stile realista che lascia poco spazio alle riflessioni poetiche, caratterizzato invece da tagliente ironia.
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