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Grande affresco della Russia ottocentesca
Grande affresco della Russia ottocentesca. Protagonista è l’apatico Ilia Ilyic Oblomov, che pur di non affrontare i problemi li elimina letteralmente dalla propria mente quasi come se il non pensarci risolvesse il problema di per sé. Auto confinatosi nel proprio appartamento, anzi nel proprio studio, spostandosi dal letto al divano, neanche la notizia che le sue rendite stanno diminuendo riesce a smuoverlo per tentare di ammodernare l’amministrazione dei propri possedimenti felice, anzi, che l’inchiostro nel calamaio si sia seccato così può evitare di alzarsi dal divano per impartire nuove disposizioni. Un antieroe per il quale sembra che il mondo fuori dalla sua stanza sia immutabile. Siamo nel 1859, dalle pagine di Gonciarov emerge una denuncia forte – per quanto fosse possibile all’epoca denunciare – dello stato di arretratezza socio-economica del paese e della classe di latifondisti che da questa arretratezza trova la sua linfa vitale. Assimilabile forse al crudo realismo di Gogol o alla dura condanna sociale che è presente nei racconti di Turgenev “Memorie di un cacciatore”. Nell’immensità della steppa russa la nobiltà contadina viveva, con i suoi servi, nel nulla crogiolandosi in una sorta di torpore mentale in cui qualche critico individua la vera malattia nazionale. D’altronde lo stesso Paolo Nori (profondo conoscitore e traduttore di scrittori russi), nella sua introduzione, sottolinea come il ceto colto, intellettuale, più avanzato della Russia dell’epoca, nonostante le conoscenze che avevano acquisito viaggiando in Europa (in quegli ambienti il francese era pressocché la prima lingua, vedi i romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Puskin) erano convinti che non c’era granché da fare. E Oblomov, infatti, non fa niente nemmeno per curare i propri interessi.
La rappresentazione della realtà russa in cui si colloca il romanzo, più che Oblomov, ce la racconta il suo alter ego, il suo amico Stol’c. Stol’c è l’opposto del protagonista: pieno di vita, di interessi, di curiosità, cerca disperatamente di smuovere il suo amico dalla sua pigrizia. Ma Oblomov non pensa affatto che la sua sia pigrizia piuttosto un vero e proprio ideale di vita: “E in che consiste l’ideale della vita secondo te? Non è esso l’oblomovismo? domandò egli senza slancio, timidamente. Che non tendono forse tutti a quello che io sogno? Ti prego! - aggiunse egli più arditamente. Che forse lo scopo di tutto il vostro affaccendarvi, delle vostre passioni e guerre, del vostro commercio e della vostra politica non è il raggiungimento della calma, l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?”
Anche il pensare, per Oblomov, è una fatica perché presuppone che dopo l’articolazione di un pensiero debba seguire un’azione. Non a caso Oblomov delegherà a Stol’c la verifica della conduzione dei suoi possedimenti.
Ma la critica che Gonciarov muove al proprio paese si palesa tra le riflessioni morali che attraversano la mente di Oblomov, i giudizi che dal suo divano emette sulla società ipocrita, debosciata dove “sono tutti dei cadaveri, degli addormentati, peggio di me, questi membri della società o del mondo! Cosa li guida nella vita? Va bene, essi non stanno sdraiati, ma vanno e vengono ogni giorno, come mosche, avanti e indietro, e che ne vien fuori?... Si riuniscono e si offrono l’un l’altro da mangiare senza cordialità, senza bontà, senza reciproca simpatia! Si riuniscono a pranzo, danno una serata come se andassero all’ufficio, senza allegria.” Oblomov, in buona sostanza, non crede negli uomini e, di conseguenza, non crede in alcuna possibilità di cambiamento e per questo che ogni sforzo, qualsiasi azione gli appare inutile.
Quando ho letto questo straordinario romanzo, che si inserisce a pieno titolo nella grande letteratura russa (ma non solo), sicuramente con una certa forzatura, non ho potuto fare a meno di assimilare l’oblovismo ad alcune archetipiche caratteristiche nostrane (diventati luoghi comuni) quali una rassegnata apatia, un indolente fatalismo. Qualcosa poi smuoverà (poco) Oblomov ma per non spoilerare evito di parlare del finale.
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