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Il lusso della vita
All’apice dell’esistenza, l’artista Gustav Aschenbach, tormentato dall’inquietudine che agita e accompagna, animandola, la sua produzione letteraria e da essa ormai logorato, in una sera di un non ben definito 19.., fa un incontro casuale che lo solletica a intraprendere un viaggio. Ragione e autodisciplina e una continua lotta contro il tempo, che tiranno gli leva i giorni e lo assedia nella paura di non avere il tempo necessario per poter esprimere tutta la sua arte, lo hanno da tempo relegato nella bella città in cui vive. Una tentazione che lo agita e che decide di assecondare permetterà ai lacci che lo imbrigliano di allentarsi, minando la sua stessa identità che ha tentato disperatamente, per tutta la sua esistenza, di far coincidere con la sua essenza di artista.
“La morte a Venezia” ha come tema principale quindi la rappresentazione della tensione che accompagna l’eletto, il destinato a compiere grandi opere con la sua arte, l’ansia di colui che investe su questo dono con solerte dedizione quotidiana, fin da quando, giovanissimo, con le sue prime pubblicazioni, l’ha tradita. Egli infatti l’ha messa in discussione perché essa è animata da una tensione perpetua al sapere e si fa così veicolo di atrofia, sgomento e profanazione della volontà annullando passione e sentimento, ma poi lo stesso artista si piega infine al sacrificio della sua anima. Un sacrificio che è però animato dall’intuizione della perfetta coincidenza che deve esserci fra ciò che scrive e il sentire prevalente nel suo tempo, affinché alla creazione si accompagni la fama: si vota perciò alla rappresentazione del più stringente moralismo e ne diventa il simbolo, incatenandosi per sempre, sacrificando ogni pulsione.
Il viaggio verso l’Istria e il suo approdo nella meta finale e definitiva di Venezia, meta senza ritorno o tappa di un viaggio in un’altra dimensione, diventa dunque la metafora, come nella più grande letteratura, di un percorso di redenzione. Venezia, laguna immobile e mefistofelica, ammorbata dal colera, con una propaggine gaudente nel Lido, diventa lo scenario ideale per far risaltare l’aspetto dionisiaco che si risveglia lentamente in lui, dopo lungo torpore, e che accompagna, sotterraneo, ogni manifestazione vitale perché ne è una componente necessaria.
Il suo calarsi nella vita, tra la gente, con fare altezzoso e distinto, è accompagnato da una promiscuità umana che gli fa ribrezzo: il vecchio finto-giovane che si accompagna, lascivo, ad un gruppo di ragazzi, il gondoliere truffaldino e poi in quella sorta di “non- luogo” che è l’ Hotel Excelsior l’apparire netto di una famiglia, tra i suoi componenti un ragazzo bellissimo: un adone. Lo spirito si eccita, la tensione emotiva è tutta diretta verso il giovane che già il giorno dopo è paragonato a un feace nel suo tardivo risveglio, prima delle numerosissime attribuzioni mitologiche a cui lo sottoporrà l’ormai delirante Aschenbach: sarà infatti Giacinto nel gioco della palla, poi Narciso nel momento topico del sorriso rivoltogli, e ancora Ermes in quello finale dell’accompagnamento alla morte. Il tutto sfocerà in un’immersione tra la gente con la consapevolezza del potere venefico esercitato dal contatto umano in caso di malattia infettiva, un modo effettivo di contaminarsi e annullarsi.
Leggere Mann è sempre edificante, trionfo dello stile, maestria e padronanza assoluta, spero sia stato più libero delle sue creature letterarie.
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Non è una lettura recente, ma ricordo che in alcuni passaggi la scrittura non è nitida come nel miglior Mann, ma con qualcosa di torbido, dire 'appiccicoso' sarebbe troppo.