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PRO PATRIA
Se il massimo poema della letteratura tedesca è il “Faust” di Goethe, il suo massimo romanzo è allora il “Doctor Faustus”, non perché fra i due ci sia un senso di continuità legato al mito tedesco dell’uomo che sigla un patto con il diavolo, quanto perché la continuità è data dall’espressione artistica che sfruttando quel mito ambisce all’empireo della perfezione formale e contenutistica.
Richiamare il diavolo e la sua pericolosità e con esso le velleità umane e i suoi mortali limiti, inscenando la vita di un musicista, il compositore tedesco Adrian Leverkühn, raccontata a mo’ di biografia dal suo caro amico, Serenus Zeitblom, è il modo che Mann, ormai settantenne, si riserva fra il 1943 e il 1947, quando, a guerra finita, la sconfitta della Germania nazista fa provare solo un profondo senso di smarrimento accompagnato da un lamento d’amore per la propria patria.
Patria, l’ultima parola del romanzo.
Eppure l’opera, ci ricorda Ervino Pocar, traduttore e curatore dell’edizione da me letta (ristampa anni ‘80 dell’edizione Mondadori del 1949), non fu affatto ben accolta dai tedeschi che accusarono il suo autore di ipocrisia nella rappresentazione del lutto nazionale, avendo egli preso le distanze dalla sua nazione che vedeva lucidamente destinata ad una pericolosa deriva.
Come poteva un antinazista cantare ora il lamento funebre più straziante?
E invece questo è, agli occhi di chi scrive, il messaggio più profondo dell’opera: la rappresentazione di un’apocalisse, quella del mondo germanico, che va di pari passo con l’opera alla quale lavora il folle musicista, un oratorio apocalittico appunto intitolato “Lamentazioni del dottor Faust”. La rappresentazione del destino tedesco è però tutta affidata al caro amico Serenus che alla morte del grandissimo artista, nel 1940, decide di raccontarne la tragica vita, riferendosi continuamente alla storia del presente e alla sua dissoluzione le cui radici vengono però situate nel passato recentissimo, vissuto anche da Adrian quando la Germania, in conseguenza della sconfitta della prima guerra mondiale, cercò di divenire repubblica senza riuscirci e facendo di fatto nascere un abominio dittatoriale.
Il parallelo fra i due periodi della storia nazionale è solo una delle tante stratificazioni presenti, il resto è infatti una complessità nutrita da una vicenda narrativa che vive di pochi elementi sapientemente gestiti dalla voce narrante la quale fa abbondante uso di anticipazioni creando di fatto curiosità verso gli scarsi elementi narrativi mentre il lettore arranca, come solito in Mann, fra disquisizioni riguardanti soprattutto l’arte e il ruolo dell’artista, senza trascurare l'erudizione pura riguardante prevalentemente aspetti strettamente legati al linguaggio musicale, dalla dodecafonia in poi.
Una lettura molto impegnativa, certo, ma che ripaga con una scrittura sublime che si nutre di ritratti precisi, ricchissimi di particolari, care vecchie descrizioni a ricordare l’impianto ottocentesco del romanzo, digressioni quasi monografiche come quella dedicata a Beethoven, o ancora moniti pedagogici che fungono da chiara guida ideologica nutriti come sono dalla convinzione che solo la cultura possa salvarci dalle barbarie.
Libertà, ragione, umanità. Vi occorre altro ?