Dettagli Recensione
I limiti della conoscenza
Letteratura americana, pura. Ve lo ricordate “America “ di Kafka (1911-1914)? Quanto mi sono tornate in mente le claustrofobiche esperienze di Karl Rossmann e le atmosfere vessanti di un mondo disumanizzante. O ancora ricordate il Poe di “Le avventure di Gordon Pym” e il suo allucinante finale che inghiotte tutto? O perché no, la ancor più famosa linea d’ombra di Conrad ( 1915-1916) che porta il protagonista a chiedersi “”Cosa m’aspettassi, non so. Null’altro che una particolare intensità dell’esistenza, forse, ciò che è il succo delle aspirazioni giovanili.”
Martin Eden ( 1908-1909) ha fatto in me confluire queste semplici suggestioni letterarie: è come se la letteratura avesse deciso di fondersi in questo romanzo per parlarmi e riaccendere quelle vibrazioni che letture precedenti hanno lasciato in me. Eppure a meno di cinquanta pagine dalla fine, il contenuto lento e ripetitivo, la catarsi infinite volte rimandata, un dilatamento eccessivo della trama, stavano generando solo un sentimento di noia e di distacco incolmabile. L’epilogo, tra i più belli della letteratura, ha poi riscattato l’intero scritto e quelli che mi erano sembrati limiti si sono trasformati in necessari tasselli, utili a raggiungere la perfezione e la maestria: non si può non riconoscerla.
La vicenda narrata ricalca la biografia di London, in particolare i suoi esordi da scrittore e i trascorsi da lavoratore a cottimo, oltre che la sua primissima esperienza amorosa: Martin è infatti un giovane marinaio addestrato dalla vita, incline all’alcool, dai modi rozzi e dalla conoscenza nulla; venuto a contatto con la middle class californiana, ne resta affascinato anche per la frequentazione e l’amore che nascerà con un suo bel frutto, la giovane Ruth. La fascinazione lo porta in prima istanza a una sorta di omologazione e al miraggio di poter far parte di quel mondo che lo rifiuta con tutto il suo classismo; mentre insegue imperterrito il suo sogno, tutto utilitaristico, di sbarcare il lunario in modo agevole, evitando dunque la fatica fisica e sfruttando le doti intellettuali che, proprio in virtù di quel primo tentativo di livellamento sociale, lo induce ad acculturarsi, si accorge che la borghesia americana basa la sua superiorità sul potere del denaro e non su quello della conoscenza, nutrendosi solo di ipocrisia per celare la propria mediocrità intellettuale. Il disincanto è misto a rabbia quando sperimenta la fatica della sopravvivenza, un continuo alternarsi di debiti, di pegni e di riscatti, diventa ferita profonda e purulenta quando tutto si ribalta e il successo inizia ad arridergli. Sistemate alcune questioni pratiche, tutte di natura filantropica, archiviata ormai la storia d’amore con Ruth, diventato certamente ricco, capisce di essere privo di una identità sociale, non sarà mai borghese e non tornerà più a essere un diseredato: la cultura lo ha allontanato da tutti, è ormai un essere asociale; gli ha dato però la socratica certezza di sapere di non sapere. Buona lettura.
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