Dettagli Recensione
La verità, vi prego, per Sylvia
Manca l’aria sotto la campana di vetro: si soffoca alla luce del sole, di fronte agli occhi di tutti. La realtà è una teca di vetro che costringe gli altri alla distanza, anche se ci illude di rendere visibile l’invisibile. Invece Esther è sola, Sylvia è sola. La giovane ragazza inebriata dalla propria intelligenza, dalla grazia rara delle poesie che scrive fin da bambina, incensata da borse di studio e premi prestigiosi, resta sospesa sul limite sdrucciolevole della propria inadeguatezza, alla ricerca di un equilibrio tra arte e vita, verità e gioia, capace di stroncare un’esistenza. Non scomoderò per Sylvia Plath la psicologia torbida alla McGrath: ho con lei, abbiamo con lei, un debito di sincerità. Non ci sono labirinti limacciosi e torbidi, non ci sono abissi di disperazione, parossismi di tormento. A Sylvia dobbiamo parole nude, suoni puri e trasparenti, perché nelle pagine dei suoi diari, nelle svolte autobiografiche di questo romanzo, ci concede la rara occasione di osservare il nucleo dai margini netti del suicidio. Il suicidio irrompe quasi senza preavviso, dopo pagine qualunque sulla via qualunque di un’adolescente americana che ha ottenuto la possibilità di scrivere per una rivista di moda a NewYork. E quando compare, quando il primo tentativo va a vuoto, il suicidio resta sempre lì, dispiegato nella sua inappuntabile incombenza, non un buco nero nascosto, ma un alter ego cui Sylvia parla con franchezza, come una possibilità sempre concreta, sempre a portata di mano. È questa naturalezza del discorso, questa tranquillità espressiva, che rende questo libro prezioso e doloroso: perché queste non sono pagine di disperazione, ma di stanchezza e rassegnazione. La rassegnazione di chi sa di vivere, come San Paolo, “come attraverso uno spazio”, come la Karin dell’omonimo film di Bergman che sconta questa consapevolezza con la violenta inappellabilità della schizofrenia. Lo specchio che a Sylvia restituisce un’immagine di sé che lei stessa non sa riconoscere, l’immagine tempestata di luci azzurre dell’elettroshock, l’immagine di una poetessa costretta a sacrificare la propria arte a un mondo che alle donne lascia poco spazio.
Sylvia Plath non era un romanziera: il libro sconta qualche trascuratezza formale e di struttura, perfino qualche punto di ineleganza, ma resta forse l’unico lavoro della scrittrice che possiamo leggere senza le manipolazioni e il filtro di un marito, Ted Hughes, che distrusse i diari degli ultimi mesi di vita della scrittrice. Mesi fervidi e creativi, che ci hanno lasciato le poesie inafferrabili e altissime di “Ariel” e che sembrano chiudere il doloroso corollario di una vita che ha in questo romanzo il suo centro rivelatore. Dobbiamo verità a Sylvia Plath, al coraggio della sua fragilità, alla franchezza del suo coraggio, al dolore della sua malattia: una verità che pochi le hanno riservato, cui quasi nessuno sembra tenere. È più facile parlare dell’ennesima donna sfortunata, trattata con disprezzo dal marito, incastrata tra l’arte e i figli: ma la sua biografia, quando presa per intero, ha più di qualcosa da insegnarci sull’essere umani. E questo libro ci aiuta a esserlo.
Indicazioni utili
Ariel di Sylvia Plath
Commenti
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Immaginavo fossi un estimatore di Bergman, mi sto recuperando i suoi film ultimamente. Sono innamorato di "Sussurri e grida".
Ho anche degli altri libri curiosi che ho letto, quando aggiungeranno le schede, spero di scriverne al meglio. Intanto buon Natale e buon anno!
Buon anno anche a te!
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