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Alcatraz
Il banco di prova degli autori di romanzi polizieschi è il classico “enigma della camera chiusa”, il giallo cioè dove tutti i personaggi sono giocoforza costretti in un ambiente ristretto, una camera chiusa appunto, con ingressi, finestre e comunicazioni con l’esterno ben sprangati dall’interno, ad impedire ogni accesso di cose e persone.
Da ciò deriva inevitabilmente che il colpevole è uno dei rinchiusi, si confonde tra i presenti, ma è da annoverarsi senza dubbio tra di loro, non può essere altrimenti.
Niente inganni, niente giochi di prestigio, passaggi segreti o accessi nascosti, luogo sigillato e protagonisti ristretti ai presenti.
Questo rende tutto più difficile per lo scrittore del genere, deve inventarsi soprattutto non come dissimulare prove e indizi che conducano al colpevole bensì come mimetizzarlo, stavolta non basta individuare il “cui prodest” in genere, serve identificare chi è precisamente l’interessato tra una cerchia contenuta di sospetti.
Per questo è una vera prova d’autore, occorre che il colpevole sia davvero un insospettabile, quello che meno di chiunque altro ha il modo ed il motivo di commettere il delitto, e quindi gli autori migliori, negli enigmi più riusciti, esplicano la soluzione con un inaspettato, talora stupefacente, colpo di scena finale, tanto logico ad apparire a cose fatte, quanto sorprendente, che inevitabilmente suscita il plauso entusiasta del lettore appassionato di simili storie enigmatiche.
Agatha Christie non ha bisogno di presentazioni di sorta, la Regina del Mistery si è più volte cimentata alla grande su delitti in ambiente circoscritto, per esempio nel magistrale “Assassinio sull’Orient Express” o su “Poirot sul Nilo”, in cui il suo personaggio principe, il piccolo e comico a vedersi investigatore belga dimostra il suo acume poliziesco, che poco fa ridere i colpevoli, investigando su una stretta cerchia di persone rinchiuse in un luogo circoscritto, inaccessibile ad esterni, un treno bloccato nella neve nel primo testo citato, un battello da crociera nel secondo.
Ma stiamo parlando della Regina di questo genere di storie, come tale per lei ogni romanzo è una sfida ad ingegnarsi a perfezionare oltre la cosa, quindi non può e non vuole esimersi e sottrarsi ad offrirci un nuovo giallo in spazi ristretti.
Solo che, come tutti i talentuosi anche un po' narcisisti, non si ripete, quindi penserà sempre più in grande, allestirà un mistero sempre più difficile, e dopo aver ben costruito l’impianto della nuova storia, passerà senza indugio ad uno step successivo, il meglio di sé lo offrirà, senza tema di confronti, con un luogo chiuso alquanto più ampio, un’isola, una vera isola tagliata fuori dal mondo, giusto a voler significare che treni e battelli fluviali sono oramai poca cosa per il suo talento, meglio ampliare scenari e difficoltà.
Cosicché i lettori sappiano con chi hanno a che fare, vedano come ancora una volta Agatha Christie appronta una storia perfetta, gioca con il suo lettore, non imbroglia o bara platealmente, ma ne distoglie l’attenzione dagli indizi essenziali, così come si fa con i giochi di prestigio, dopotutto è onesta, gli indizi sono tutti lì, basta incastrali nel giusto ordine, una questione di logica, e solo allora si vede che la storia convince, tutte le sue parti si armonizzano alla perfezione…appunto, solo al termine della lettura.
La scrittrice inglese, in sintesi, riesce alla grande anche quando l’enigma della camera chiusa lo ripropone in grande, addirittura su un’isola, niente da eccepire, tanto di cappello.
Un’isola, per quanto piccola comunque un’isola, poco lontano dalle coste inglesi, dove un barcaiolo accompagna otto persone, sconosciute tra di loro, tutte persone diverse per età, sesso, professione, estrazione sociale, tutte e otto come vedremo invitati nell’isola, o meglio ciascuno allettato diversamente a recarsi nell’isola, da un misterioso signor U.N. Owen e gentile consorte, tra l’altro ignoti a chiunque dei suoi invitati: ma evidentemente il misterioso anfitrione deve aver fatto leva sul opportune motivazioni per aver convinto tutti ad accettare l’invito e recarsi senza indugio ospite di qualcuno che non hanno mai conosciuto in vita loro.
Nell’isola sono accolti però solo da una coppia di domestici, che li accompagnano ciascuno nella propria camera in una grande e lussuosa residenza, evidentemente i proprietari, assenti perché trattenuti li raggiungeranno in seguito; sulla piccola isola restano quindi solo dieci persone, anche il marinaio che li ha accompagnati, unico legame con la terraferma, si allontana con la sua barca.
Ciascuno degli ospiti, domestici compresi, che neanche loro hanno conosciuto ancora i nuovi datori di lavoro, prendono confidenza con l’ambiente, e ognuno è incuriosito dal testo di una antica filastrocca, incorniciata sulle pareti delle rispettive camere, che riporta la storia di dieci piccoli indiani, si intende qui i nativi dell’India, ognuno dei quali muore con differenti modalità.
Quando poi tutti e dieci, domestici compresi si ritrovano a sera nel salone principale, dapprima sono sorpresi dal perdurare dell’assenza di chi li ha lì convocati chi per un motivo chi per un altro, poi addirittura stupefatti allorché un registratore nascosto li informa che in realtà sono stati attirati nell’isola a scopo di giustizia da un inesistente quanto fasullo signor U.N. Owen, un nome che è già una dichiarazione di guerra, poiché la pronuncia è identica al termine inglese che sta per “sconosciuto”, in quanto ciascuno di loro è colpevole di un omicidio, senza ombra di dubbio, con tanto di nome delle vittime e delle date in cui sono avvenuti i delitti, anche se la giustizia degli uomini non è riuscita ad inchiodarli alle loro responsabilità.
Segue lo sconcerto generale, l’affannarsi delle voci concitate di tutti gli astanti, il discolparsi dalle accuse, il proclamare ciascuno a suo modo, ognuno a gran voce, con fermezza se non sdegno, la falsità delle calunnie, niente più che basse e false insinuazioni, ognuno propone il racconto di come sono andate effettivamente le cose per rimuovere ogni dubbio in proposito sulla propria innocenza, tant’è che nessuno è stato riconosciuto colpevole da un tribunale, e intanto sul tavolo della sala troneggia come centrotavola una insolita scultura di dieci piccoli negretti con in testa il tipico turbante dei nativi dell’India.
Da quel momento, è una vera e propria discesa agli inferi.
In un clima di tipica tensione inglese, davvero insostenibile, alla Hitchcock per intenderci, una alla volta un ospite viene assassinato, con modalità diverse, che rispecchiano quelle riportate nella filastrocca, tramite veleno, violenti traumi da corpi contundenti, colpi di arma da fuoco, ecc.
Nello stesso tempo, ad ogni omicidio corrisponde la scomparsa di una delle statuette dal tavolo centrale, a scandire un terribile quanto inesorabile conto alla rovescia.
L’isola è davvero deserta, i dieci sono isolati come reclusi sul penitenziario di Alcatraz, successive esplorazioni dell’isola degli stessi protagonisti lo confermano, per di più è anche tagliata fuori da qualsiasi comunicazione con l’esterno, anche per il sopraggiungere di una violenta tempesta.
Sembrerebbe ovvio che l’ultimo dei dieci che rimane in vita sia in realtà il colpevole degli omicidi precedenti, almeno per esclusione, invece non è affatto così.
Letteralmente, non ne rimane in vita nessuno; e successive indagini condotte dalle forze dell’ordine, intervenute a dipanare il mistero dell’insolito eccidio, una volta ristabiliti i collegamenti con la terraferma per l’arrivo dei rifornimenti, portano ad un desolante nulla di fatto.
Un mistero quindi, e uno di quelli grossi, un rompicapo senza esito, poiché le indagini permettono di appurare che nessuno può essere stato assassinato per l’intervento degli altri presenti, quasi a significare per assurdo che i morti si forniscano un alibi a vicenda, e sull’isola davvero non esisteva un undicesimo che potesse giustificare la strage.
Agatha Christie letteralmente in questo giallo, rimasto negli annali come un capolavoro del genere, ha offerto il meglio della sua arte.
Con una prosa brillante, come sua solita semplice ma descrittiva al massimo, che scorre fluida con ritmo progressivamente ingravescente, mette in scena un vero e proprio processo a quello che è il più odioso dei crimini, la privazione della vita: lo fa con brio, con velocità, e però con la massima serietà, quella dovuta alle aule di un tribunale, direi che nel trambusto degli eventi che si svolgono sull’isola senza soluzione di continuità, si sentisse comunque chiaro sullo sfondo lo scorrere della sabbia nella clessidra della giustizia.
Una giustizia completa: i colpevoli non sono solo riconosciuti tali e affidati alla custodia in un’altra isola, una Alcatraz vera e propria, stavolta, dove scontare la pena, ma sono passabili di pena capitale.
Se nei suoi gialli precedenti il ruolo di deus ex machina, inteso nel senso di colui che, un Poirot o una Miss Marple, rimette le cose a posto, riporta ordine e giustizia spiegando minuziosamente come sono andate in effetti le cose, ponendo in sequenza logica i successivi indizi sparsi tra le pagine, qui questo ruolo manca, non esiste investigatore, e nemmeno un superstite a spiegare le cose.
Allora la scrittrice ricorre ad un deus ex machina classico, il manoscritto trovato in una bottiglia, un elemento risolutore che sembra anche uno sberleffo della scrittrice, notoriamente una donna egocentrica e complessa, quasi volesse dire: meglio che fornisca io la soluzione in qualche modo, tanto non ci arriverete mai. E magari aveva ragione lei. Per forza, era una Regina.
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