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Werther
«La solitudine è per la mia anima un balsamo prezioso in questo paesaggio paradisiaco, e la stagione della giovinezza mi riscalda con il suo rigoglio il cuore spesso attraversato da brividi. Ogni albero, ogni siepe, è un mazzo di fiori, e si vorrebbe tramutarsi in maggiolini per poter fluttuare in questo mare di profumi e trarre da esso tutto il proprio nutrimento.»
Scritto nella forma epistolare, “I dolori del giovane Werther” è un titolo che ci presenta un protagonista innamorato dell’amore. È l’innamorato romantico per eccellenza, è l’innamorato della corrente preromantica per eccellenza. Classe 1774 il testo è uno scritto giovanile di Goethe che può considerarsi il simbolo dello Sturm und Drang (“Tempesta e impeto”), movimento che si sviluppa in Germania tra il 1770 e il 1785 e che condurrà a quei temi che saranno poi propri del romanticismo tedesco e che ritroveremo anche nei suoi futuri lavori. Molteplici le critiche circa possibili legami tra le due correnti e in particolare anche con l’Illuminismo.
Ed è così che conosciamo il nostro protagonista, che ne seguiamo le avventure, la crescita, le riflessioni in un mutare costante e in un evolversi lineare e logico. Perché Werther è un uomo intelligente ma scostante, è un uomo che all’inizio dell’opera giunge al lettore per quella profonda voglia e gioia di vivere che poi muta sino all’epilogo più che noto. Ed è ancora molto attuale come componimento, sia per tematiche trattate che per temi psicologici individuali che lo caratterizzano e delineano.
A questa prima e più immediata anima del volume caratterizzata dal sentimento dell’amore che giunge sin dalle prime pagine e che ne permea l’essenza, segue l’altro elemento romantico della Natura che qui viene recuperato nella concezione di Spinoza con il quale condivide il panteismo, non a caso si giunge ad affermare che natura e Dio sono congiunti e che la natura altro non è che “l’abito vivente della divinità”. La natura non è dunque oggetto immobile quanto forza primordiale, animata e vivida ma è anche il luogo in cui l’anima può esprimersi nella sua massima libertà e in tutte le sue tinte (malinconiche, gioiose, nelle ispirazioni, nell’arte, nella comprensione, nella ricerca e molto altro ancora). È altresì lo strumento che armonizza, che crea unione e fusione, che fonde e costruisce il volto più complesso intrinseco nell’elaborato stesso.
Lo stile è inoltre fluido, erudito ed evocativo tanto che riesce a far estraniare il lettore dal mondo circostante e a farlo concentrare su quello che invece sono le vicende. Goethe riesce inoltre in un’impresa non semplice stante la forma narrativa dell’epistola che per definizione tende ad allontanare il conoscitore, a respingerlo. Imprime in queste pagine il massimo del sentimentalismo tanto che chi ama il genere non resterà immune. È un libro che merita di far parte del bagaglio culturale di ogni lettore e che ha molto da offrire per la sua formazione. Tuttavia, l’opera tende a risentire del tempo che passa. Un po’ come ho ravvisato in “Frankenstein”, gli anni passati hanno influito sulla percezione del contenuto portando il lettore moderno a sentire quali lontani anche argomenti ancora attuali e in un certo senso vicini.
Un titolo a cui torno dopo una quindicina d’anni dal primo conoscersi, che mantiene l’emozione dei suoi contenuti, che scava nell’animo umano e che è espressione di una corrente che non manca di solleticare le corde più intime.
«Ma cosa è mai l’uomo, per poter lagnarsi di se stesso? Caro amico, te lo prometto, voglio diventare migliore, non voglio più rimuginare, come ho sempre fatto, su quel poco di male che il destino ci pone dinanzi; voglio godere il presente e lasciar passare il passato.»
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