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Anime tempestose
Pietra miliare della letteratura ottocentesca, annoverato nel gotha dei classici che più classici non si può, fa inevitabilmente parte di quei romanzi “da leggere almeno una volta nella vita”. Dunque cos’altro dire che non sia già stato scritto e raccontato centinaia di volte? Forse che vale la pena sottolineare come il valore aggiunto di quest'opera stia nella sua atipicità, nel definirsi si un romanzo d’amore nel quale il sentimento tra l’ombroso Heathcliff e la volubile Catherine viene descritto splendidamente dalla Bronte (“Il mio amore per Heathcliff somiglia ai massi eterni che stanno sotto, una fonte di gioia poco visibile ma necessaria... Io sono Hethcliff: lui è sempre, sempre nella mia mente, non come un piacere, non più di quanto io sia un piacere per me stessa, ma come il mio stesso essere”), ma allo stesso tempo un romanzo nel quale odio, rancore, vendetta si mescolano tra di loro. Conseguentemente ne emerge una storia dal contenuto non convenzionale per l’epoca, nel quale la figura di Heathcliff si erge come quella di un (anti)eroe maledetto e irascibile, solo e perennemente dannato nella sua sofferenza eterna, nel suo dolore universale, nella solitudine che colpisce e che solo un lettore superficiale potrebbe considerare come giusta nemesi del suo agire vendicativo, tanto nei confronti della famiglia Linton quanto della famiglia Earnshaw (“Voi invece, signor Heathcliff, non avete nessuno che vi ami: e per quanto possiate renderci infelici, a vendicarci sarà il pensiero che la vostra crudeltà nasce da un’infelicità più grande della nostra! Perché voi siete infelice, non è così?”).
La Bronte si spoglia di qualsiasi ipocrisia mostrando la personificazione della natura umana nelle sue sfaccettature più complete, tratteggiando personaggi in chiaroscuro che forse potrebbero essere ben individuati ridenominando scherzosamente il romanzo in “Anime tempestose”, al posto di quelle “Cime tempestose” che rappresentano la residenza della famiglia Earnshaw e poi di Heathcliff, alla quale l’autrice aggiunge quel tocco di “gotico” nella descrizione iniziale (“Wuthering Eights: ....e l’aggettivo parla da sé, facendo risuonare il tumulto atmosferico a cui sono esposte queste cime quando infuria la tempesta”), così tanto alla moda nel XIX secolo anche grazie al Frankenstein di M. Shelley. Proprio l’elemento del gotico scorre sottotraccia lungo l’intero romanzo, esplodendo poi nelle pagine finali nelle quali il soprannaturale si manifesta non per spaventare (“Mi accorsi che non stava guardando il muro, perché quando lo osservai bene mi sembrò che contemplasse qualcosa a circa due metri di distanza…..Inoltre l’oggetto immaginario non era fermo, Hethcliff lo seguiva instancabilmente con gli occhi, che non si staccavano un attimo, nemmeno mentre parlava con me”), bensì con l’intenzione di riportare un equilibrio catartico nell’intera narrazione, come se fosse indispensabile per una riabilitazione completa dei protagonisti tutti.
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Un libro di intense atmosfere. Certo, "il gotico scorre sottotraccia lungo l'intero romanzo" . Lo ricordo come una bella lettura.