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Romanzo corale
La storia è semplice, lineare: Addie Bundren moglie di Anse Bundren e madre di cinque figli muore, e per rispettare la sua volontà il resto della famiglia si mette in viaggio su un carretto di fortuna trainato da una pariglia di muli, per trasportare la salma, nel cimitero della cittadina natia. Faulkner però, premio Nobel per la letteratura nel 1950, è uno straordinario autore e nonostante questa apparente semplicità riesce a costruire uno sviluppo dal potenziale eccelso, arricchendo la storia con elementi che vanno dall’assurdo, al comico, al tragico. Il viaggio verso la sepoltura, per la famiglia Bundren, diventa difatti un percorso irto di ostacoli, assumendo in qualche modo i contorni di una catarsi e quasi di “una resa dei conti” tra i figli, dipanandosi tra fiumi in piena che hanno abbattuto ponti e che comportano la necessità di essere guadati, fienili che vanno improvvisamente a fuoco, incidenti di percorso che mettono a tappeto uno dei cinque (“Poi ha raccontato una lunga storia di come avevano dovuto aspettare che tornasse il carro e di come il ponte era stato buttato giù dalla piena e avevano fatto altre otto miglia ma anche quel ponte era partito sicchè erano tornati indietro e avevano attraversato il guado a nuoto e i muli erano affogati e avevano dovuto comprare un’altra pariglia”).
Ma il vero valore aggiunto di questo romanzo si nasconde tuttavia nello stile narrativo, nell’eccellente idea di raccontare la vicenda avvalendosi di 15 voci differenti, rappresentate innanzitutto dai membri della famiglia, ognuno portatore di riflessioni, rancori, segreti, ognuno immortalato da Faulkner nella sua terribile autenticità, tra cui spicca indubbiamente l’azione incessante della costruzione della bara che ospiterà la salma da parte di Cash, uno dei cinque figli, sotto l’occhio vigile della stessa madre che diventa così spettatrice del proprio destino (“E’ perché si è messo lì fuori, proprio sotto la finestra, smartellare e segare quella maledetta cassa. Dove lei lo vede per forza”).
Faulkner non si limita a narrare con le voci dei suoi personaggi, ognuno di loro si manifesta con un “flusso di coscienza” ininterrotto, come se il raccontare diventasse una necessità per esprimere il proprio vissuto religioso di cui il romanzo è pregno (“Certe volte mi domando perché andiamo avanti. E’perché lassù c’è una ricompensa, per noi….Tutti gli uomini saranno uguali, lassù, e il Signore toglierà a chi ha e darà a chi non ha”) oltre che filosofico, pur trattandosi sempre di una filosofia popolare ma ugualmente ostica da comprendere:
“In una stanza sconosciuta ti devi svuotare per il sonno. E prima che tu sia svuotato per il sonno, che cosa sei. E quando sei svuotato per il sonno, non sei. E quando sei riempito di sonno, non sei mai stato. Io non so che cosa sono. Io non so se sono o no”.
"Mio padre diceva che la ragione per cui si vive è per prepararsi a restare morti”.
“Mentre morivo” assume così l’impostazione di un ampio romanzo corale, polifonico, nel quale ogni voce aggiunge particolari prima non riferiti e aiuta a comprendere meglio quanto letto precedentemente (tanto che risulta molto utile una rilettura dei capitoli precedenti alla luce dei nuovi elementi emersi stante la complessità dell’opera nel suo insieme), quasi come se si trattasse di un mosaico che si compone lentamente, fino ad avere finalmente una visione completa a lettura ultimata.