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Vanitas vanitatum
Jane Austen ha lasciato un'immagine piuttosto idilliaca del periodo regency: serene dimore aristocratiche, graziose cittadine, tè pomeridiani, balli settimanali, pettegolezzi, qualche piccolo scandalo. «Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna», come scrive in una lettera alla sorella, riassumendo perfettamente la propria poetica. Un acquerello dai toni morbidi e delicati, insomma, e se c'è qualche tocco fuori posto, qualche nota stonata che emerge da sotto i colori pastello, finisce sempre con l'essere assorbita dall'armonia generale. Thackeray ci restituisce una visione ben diversa dello stesso periodo storico, un grande affresco a tinte forti che comprende praticamente tutti i colori della tavolozza, da quelli più intensi e vivaci ai toni più cupi, e nessuno armonizza con gli altri, ma tutti fanno allegramente a pugni tra loro.
Nel grandioso dipinto di Thackeray non manca nessuno dei numerosi tipi che compongono la variegata umanità: arrampicatori sociali, scialacquatori, fanatici religiosi (finti o autentici), nobili spiantati e parassiti che vorrebbero vivere come i ricchi borghesi, borghesi che cercano di passare per nobili, tutti a caccia qualcosa: denaro, posizione sociale, titoli nobiliari. Se proprio si volesse trovare un'armonia in questo quadro, sarebbe da ricercare nella comune tendenza a pensare solo a se stessi e a soddisfare la vanità che accomuna praticamente quasi tutti i personaggi, perfino l'angelica Amelia (vivere nel culto del marito defunto, sacrificando al suo ricordo qualsiasi cosa, non è forse un modo come un altro di coltivare la vanità personale?).
Thackeray mette in scena un carrozzone vivace e divertente, la fiera della vita, rivela i meccanismi che muovono le sue «marionette» (così l’autore-narratore definisce i propri personaggi) con il tono di chi se la sta spassando un mondo a farle correre di qua e di là e sfoggia con malcelata soddisfazione tutta la sapiente abilità con cui, pubblicando un romanzo a puntate, riesce a tenere viva la curiosità dei lettori per mesi e mesi, arrivando a capovolgere un'intera situazione nelle ultime due righe di un capitolo.
Eppure con quei personaggi tra le mani non ci sarebbe neanche bisogno di grandi colpi di scena per catturare l'attenzione. Basta la sapiente costruzione dei caratteri a far venire voglia di girare le pagine una dopo l'altra per scoprire cosa ne sarà della piccola, astuta, intelligente Becky, della dolce Emmy, dell'incrollabile Dobbin (l’unica figura che si salvi davvero in questo caos di brutti soggetti che è la fiera della vanità), dell'innamorato e ingenuo Rawdon, dell'irreprensibile Pitt Crawley, della sua terribile zia, la signorina Crawley, che passa la vita a muovere gli altri come marionette (anche lei, proprio come l'autore) con la promessa-minaccia di lasciare o non lasciare la propria eredità. Thackeray, dopotutto, era celebre per i ritratti satirici delle figure del bel mondo che pubblicava sulle riviste utilizzando pseudonimi. Si palpita, si desidera, si soffre, si ride con loro, ma soprattutto si ride di loro, dei nomi improbabili che Thackeray si diverte ad appioppargli e che svelano tutta la vacuità e l'inconsistenza di questi campioni della fiera umana, da Lord e Lady Mango a Malloy Mallony, da Malony di Ballymalony a Ofelia Sully di Oyetherstown, da Lady Jane Sheepshank ("costole di montone") alla contessa Southdown ("Dune meridionali", nome di una razza di pecore inglesi), dalla principessa Amelia di Humburg-Schlippenschloppen a Sua Trasparenza il duca di Pumpernickel. L'ironia dissacrante (e massacrante) dell'autore colpisce con la precisione di un proiettile scagliato da un cecchino professionista e non risparmia niente e nessuno, riportando alla mente il "Tristram Shandy" di Laurence Sterne, che però si diverte a disfare completamente la forma romanzesca. Nella "Fiera della vanità", invece, essa è rispettata nei suoi aspetti principali, sebbene l'autore si compiaccia di mettere a nudo i trucchi e i meccanismi che ne consentono il funzionamento, e dunque la lettura risulta molto più godibile.
Tra i protagonisti della fiera della vita, insomma, non si salva proprio nessuno. Si ride delle loro ossessioni, delle piccole manie, delle debolezze, delle pose studiate, dei loro folli progetti, dei loro piccoli, grandi, sciocchi desideri. Tutto si rivela infine così vano, così vuoto, così disperatamente insensato che l'ultima risata somiglia di più a una smorfia. Vanitas vanitatum...
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Un libro di grande leggibilità. Ma quanti colpi di scena!