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Come un fiume
Il Novecento: un secolo intriso di sangue, ingiustizia e dolore… eppure che grande secolo per la letteratura! Alla schiera dei grandi autori che hanno popolato quegli anni si aggiunge con prepotenza Hermann Hesse, che avevo già avuto modo di apprezzare con "Il lupo della steppa" e che ora m'ha travolto col suo "Siddhartha": opera celeberrima ma a quanto pare anche piuttosto divisiva. Cercherò di essere più obiettivo possibile, ma non posso fare a meno di sorridere leggendo alcuni paragoni con libri di auto-aiuto o romanzi mainstream moderni. In molti hanno storto il naso perché non ne hanno condiviso le riflessioni e i pensieri, ma per come la vedo io uno dei concetti chiave dell'approccio alla letteratura e alla filosofia è quello di non prendere per oro colato tutto quel che apprendiamo leggendo, scremando quel che rientra nella sfera della nostra condivisione da quel che ne è avulso. Se fossimo costretti a concordare col pensiero d'ogni scrittore e filosofo che ci ritroviamo a leggere, i disturbi mentali non tarderebbero a bussare alla nostra porta; è dunque legittimo non condividerne tutte le osservazioni, ma questo non dovrebbe impedirci di analizzarli né tantomeno di apprezzarne il valore umanistico.
In "Siddhartha" vi sono riflessioni che ho sentito talmente vicini da esserne toccato - l’importanza forse illusoria della saggezza e la possibile virtù dell'ignoranza; il paradosso della ricerca; l'inutile sforzo che un genitore fa per evitare ai figli le sue stesse sofferenze giovanili - ma anche altri pensieri che sentivo lontani o che non condivido affatto: in fondo il racconto è pregno di filosofia e spiritualità prettamente orientali e che a noi possono apparire strane, se non assurde. Questo, tuttavia, a mio parere non inficia minimamente il valore e la bellezza del racconto che, a questo punto posso dirlo, per me è un capolavoro.
Eh sì, e i motivi sono diversi, oltre a quello appena citato.
Partiamo dallo stile: Hermann Hesse dimostra d'essere un autore camaleontico: lo stile di “Siddhartha” è molto diverso da quello adoperato ne “Il lupo della steppa”, rivestito d’una sacralità che si sposa perfettamente col contesto e i contenuti, eppure la sua mano si percepisce distintamente. Già solo questo aspetto dimostra un'incredibile maestria, a cui si aggiunge una scorrevolezza insperata, almeno in un opera con tali propositi e contenuti: la narrazione scorre infatti come il fiume tanto caro a Siddhartha e, proprio come quest'ultimo, ci parla e vuole invitarci costantemente a una riflessione per mezzo dei vagabondaggi, della crescita e della lunga ricerca che il nostro protagonista fa per trovare sé stesso e il segreto per congiungersi alla vita stessa. Non comprendo chi lo ha trovato pesante o ripetitivo: pur rispettandone l'opinione quest'ultimo punto mi lascia estremamente dubbioso.
Seppure i personaggi non posseggano una grande potenza e i loro caratteri non restino impressi nella memoria, i loro pensieri e riflessioni colmano efficacemente quest’unica, piccola lacuna.
In conclusione leggetelo: senza alcuna aspettativa o pregiudizio; senza l'erronea convinzione di doverne condividere ogni virgola ma analizzandone il contenuto.
Secondo me non ve ne pentirete.
“Quando qualcuno cerca, allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: essere libero, restare aperto, non avere scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi.”
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Commenti
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Non discuto l'aspetto contenutistico, ma quello estetico. Ebbene , è proprio la 'forma' che non mi è parsa del tutto convincente : vi ho trovato pagine affascinanti, ma spesso H. Hesse ha qui dei cedimenti ; trapela una certa enfasi, un trasporto non ben controllato, come se l'autore non avesse sufficientemente sublimato l'esperienza che voleva narrare, per cui mi pare essere troppo fragile quel distacco necessario perché un testo diventi grande letteratura.
potrebbe facilmente essere un'unione di questi due fattori, e probabilmente la portata mondiale di questi grandi eventi ha contribuito a fornirci tantissimi punti di vista sui medesimi avvenimenti, anche da culture e scrittori molto diversi tra loro. È incredibile la quantità di differenze riscontrabili se a raccontare una stessa guerra(per esempio) sia uno scrittore tedesco, italiano, americano eccetera.
grazie. Io credo che l'enfasi di cui parli tu sia in buona parte dovuta alla volontà dell'autore di conformarsi al tipo di storia e di filosofia che si è trovato a raccontare. Sacralità e grandiosità sono cose che ben si adattano al contesto "orientaleggiante" e mi è sembrata una scelta voluta, non dettata da un'eccessivo coinvolgimento da parte di Hesse. Una storia del genere raccontata col distacco tipico dei grandi autori europei (soprattutto novecenteschi) l'avrei trovato probabilmente artificioso. Potrei sbagliarmi, perché in fondo chi può avere una qualsivoglia certezza sull'operato di un qualsivoglia autore? Tuttavia è questa l'impressione che ne ho tratto, e non mi ha affatto disturbato... anzi.
cavolo, hai letto tutti i libri di Hesse! Prima o poi lo farò anch'io, ma per ora sono fermo a quota due. Uno meglio dell'altro anche se, come dici tu, in "Siddhartha" c'è qualche cosa in più.
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