Dettagli Recensione
Una statua di neve
La giovane Lucy Snowe si ritrova povera e sola al mondo dopo un misterioso disastro familiare. Costretta a provvedere a se stessa, prima trova lavoro come dama di compagnia di un’anziana e malata signora, poi, alla morte di quest’ultima, parte all’avventura per l’immaginario paese francofono del Labassecour. Qui diventa insegnante di inglese in un collegio femminile e tra la difficoltà di ambientarsi, la solitudine e il passato che torna a bussare alla porta, Lucy incontra l’amore.
Se la trama di "Villette" suona familiare a un lettore di Charlotte Brontë è perché ricalca quasi alla perfezione le vicende di altri due romanzi dell’autrice, "Il professore" e "Jane Eyre". Il primo è generalmente considerato un romanzo d’esordio e nulla più, con tutti i limiti e le pecche del caso, e pare che costituisca l’embrione dal quale, anni dopo, Charlotte avrebbe tratto il “meglio riuscito” "Villette", che, a dispetto del successo senza tempo di "Jane Eyre", è considerato da molti critici il suo vero capolavoro per la maturità stilistica che lo contraddistingue. Le similitudini tra "Il professore" e "Villette" sono in effetti numerose e di una certa rilevanza, al punto che l’unica vera differenza tra essi è il sesso del personaggio principale. I due protagonisti compiono un percorso praticamente identico: entrambi poveri e senza famiglia, entrambi impiegati in un collegio del continente dove sono destinati a trovare l’amore e, nonostante gli ostacoli che gli oppositori pongono sulla loro strada, riescono infine a conquistarlo.
"Jane Eyre", dal canto suo, dovrebbe essere un’opera del tutto autonoma da "Villette" e non una sorta di bozza preparatoria come "Il professore", eppure tornano le solite analogie: una giovane donna priva di mezzi e di sostegno, bruttina, modesta e con una morale d’acciaio che farebbe invidia al più severo degli asceti medievali, si innamora, sorprendentemente ricambiata, di un eroe maschile che sotto le apparenze burbere e scontrose nasconde un cuore d’oro, sconfigge le odiose rivali, tutte più belle e più ricche di lei, e convola infine a giuste nozze (o almeno ci prova, nel caso della più sfortunata signorina Snowe).
Sembra proprio che Charlotte Brontë avesse un problema di originalità. Leggere una sola di queste opere, o anche due, può andare bene, ma trovarsi davanti il terzo romanzo che ricalca quasi alla perfezione sempre lo stesso schema è esasperante. Anche qui, come in "Jane Eyre", la protagonista sviene, trovandosi in condizioni drammatiche, ed è soccorsa da persone che in un primo momento sembrano estranee per poi rivelare uno stretto legame con lei, e anche qui, come in "Jane Eyre", abbiamo un tocco di gotico, un mistero in apparenza sovrannaturale che si rivela poi decisamente prosaico.
Eppure in "Villette" c’è qualcosa di peggio della totale mancanza di originalità ed è la sua insopportabile protagonista. Gelida quando il cognome che porta, Lucy Snowe è una puritana arida e bacchettona che dall’alto della sua purissima fede protestante osserva l’umanità intera con malcelata riprovazione e su tutti emette il suo insindacabile giudizio mentale, neanche fosse il Minosse dantesco che indirizza i dannati verso il girone nel quale espieranno le loro colpe. Tra una sentenza e l’altra, miss Snowe convoca e fa dialogare tra loro entità astratte come Ragione, Immaginazione, Speranza, Virtù, e assiste alle inquietanti apparizioni del fantasma di una MONACA, citata sempre in maiuscolo per dare il giusto risalto drammatico al momento, ammesso che il lettore riesca a non scoppiare a ridere.
I bersagli preferiti della rigida signorina Snowe sono gli stranieri e i cattolici e poiché nel regno del Labassecour la povera Lucy è circondata da stranieri cattolici si può intuire quanto duramente sia messa alla prova. Gli stranieri sembrano avere ai suoi occhi un’unica colpa principale, quella di non essere inglesi. Da qui discende una lunga serie di intollerabili difetti e barbarici costumi, come avere una fisionomia continentale, ridacchiare in classe durante le lezioni e indossare abiti troppo ricercati. Le accuse a carico dei cattolici, poi, sono così numerose che la nostra Lucy ci potrebbe riempire un’enciclopedia: falsi, bugiardi, avidi, privi di saldi principi morali, subdoli, ingannatori, corrotti e capaci di architettare gli stratagemmi più astuti per insinuarsi nei cuori dei protestanti e indurli alla conversione. Anche i migliori tra loro non sfuggono a questi difetti, che per la signorina Snowe sembrano essere emanati direttamente da Roma, citata di continuo come una sorta di minacciosa entità che controlla tutti i propri adepti, con l’unica parziale eccezione del love interest della protagonista. Peccato che anche lui tenti di convertirla, mostrando così di non essere del tutto immune al malefico influsso di Roma. Per sua fortuna, la nostra eroina è così ferma e salda nei suoi principi morali e religiosi da resistere serenamente a ogni assalto e sorridere con soave disprezzo degli orrori che la insidiano da ogni dove.
A onor del vero, bisogna ammettere che la povera Lucy non ha proprio tutti i torti e che tra le sue conoscenze non si salva nessuno: Madame Beck è un’ipocrita impicciona, Ginevra Fanshawe una civetta senza cervello, Graham Bretton un bambolotto ingenuo e superficiale, Paul Emanuel un piccolo dispotico maschilista e prevaricatore, Paulina de Bassompierre una ragazzina sciocca e infantile. Non sarà che tutti gli altri personaggi sono stati resi in modo così poco lusinghiero allo scopro preciso di far risaltare la moralità, l’integrità, la virtù e la perfezione di Lucy? Forse sì, ma la protagonista si rende così detestabile che, pur con tutto il suo carico di sofferenze e difficoltà, non riesce comunque a far pesare il bilancio in suo favore e anzi si è quasi portati ad avere più simpatia per la vivace, capricciosa e vanesia Ginevra, molto più umana, divertente e realistica di quella statua di neve (di nome e di fatto) che è Lucy Snowe.
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Non lo sconsiglio, soprattutto per chi ama Charlotte Bronte. Solo che sono rimasta abbastanza delusa, perché avevo sentito parlare di Villette come del capolavoro dell'autrice, ma a mio parere non lo è. In ogni caso ti consiglio di leggerlo, in modo che potrai farti la tua opinione ^^.
Riscrivere la stessa storia deve essere parecchio più duro, credo: da lettore condivido l'insoddisfazione, ma un plauso quantomeno all'abnegazione della scrittrice.
In ogni caso, la tua notazione sulla costanza "a ripetersi" della Bronte è molto interessante.
Resta fermo, secondo me, che la volontà di "migliorare" l'opera precedente non esaurisce per intero le motivazioni di uno scrittore che riprende in mano la trama già esposta. Anche in pittura, spesso, la ripresa di un determinato soggetto non implica di per sé, da parte del pittore, il voler disconoscere l'opera precedente (esistono quadri molto simili, magari con lo stesso titolo, che vengono differenziati dall'autore tramite la data o il luogo dove lo hanno dipinto, e tutti sono da lui ritenuti "originali").
La tua osservazione sui tre scritti della Bronte mi ha dato da pensare: se essi sono così "ravvicinabili", la continua ricerca dell'autrice potrebbe dipendere da fattori ancora diversi, e persino - diciamo così - da una sua "insicurezza" al riguardo. Interessante, sotto questo aspetto, il confronto tra le tre opere che fai nell'ultimo post.
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