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Tra ideale e grottesco
Ogni classico che si rispetti, come diceva Calvino, ha l’intrinseca caratteristica di non essere mai uguale a se stesso, di avere sempre qualcosa di nuovo da dire. Da questa sentenza non può certo esonerarsi Notre-dame de Paris, di cui darne una definizione univoca risulta arduo, al lettore e anche, aimé, al recensore.
Pensato come critica al decadimento di un’architettura parigina tanto cara al nostro Hugo, quella gotica medievale, e come lode alla stessa ma non meno come superamento di un genere (Il romanzo storico) tanto caro alla letteratura, per giungere a una fusione di più generi. Non manca tuttavia un velo personale, un tormento insito nei personaggi, vittime di un destino che non possono governare. Quegli stessi personaggi che si scoprono separati, frammentati in un eterno dualismo: quello tra il sublime e il grottesco, che li tormenta, in primis Quasimodo. Nessuno dei due però prevale sull’altro, non vi è bello ideale né cupa mostruosità. Per questo non si può che inorridire alla tetra descrizione del nostro gobbo e ai timori di Esmeralda alla sua vista e al tempo stesso intenerirsi e aver compassione della pura e docile anima di Quasimodo. E allo stesso modo non si può che provare orrore di fronte alle meschine azioni di Frollo e al tempo stesso avere pietà per il suo tragico destino, di cui non può essere padrone. Proprio da questa dicotomia nasce una nuova armonia, l’armonia dei contrari.
E non si può dimenticare di annoverare tra i protagonisti, la fervente folla, per la prima volta al centro di un romanzo e, insieme, la ville-lumière, sfondo ma anche soggetto del romanzo stesso.
Pertanto, non possiamo che ringraziare Charles Gosselin, editore del romanzo che lungamente sollecitò l’autore per la sua scrittura (e dovette attendere per ben tre anni il manoscritto dal nostro scrittore, che tanto tardò la consegna) e, chiaramente, Hugo per il suo capolavoro.
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Ho iniziato proprio con questo libro ad avvicinarmi ai romanzi dell'Ottocento francese!