Dettagli Recensione
Spietato cinismo e tanta ironia
La mia modesta recensione non renderà mai merito alla grandiosità di questo intenso libro. Non so neppure da dove cominciare per parlarvene. Ho avuto qualche difficoltà nelle pagine iniziali, poi la lettura è stata più scorrevole.
Il titolo è già evocativo al massimo grado: è veramente un viaggio, un percorso fisico e spirituale attraverso una metaforica notte. Quale notte? Quella del buio morale dentro l’animo delle persone, quella della grande paura della guerra, quella dell’alienazione dell’uomo alla macchina.
La personalità stessa dell’autore ha i suoi chiaroscuri, le sue inquietudini e le sue contraddizioni. Céline era un “medico che sapeva tutto della vita, un uomo di estrema lucidità, disperato, freddo e tuttavia passionale” scrisse di lui l’editore francese Denoël che volle incontrarlo dopo aver letto il voluminoso dattiloscritto, consegnato senza nome.
E il protagonista, l’io narrante dell’opera è uno studente di medicina, Ferdinand Bardamu, che può essere considerato l’alter ego dell’autore stesso, i riferimenti autobiografici sono palesi: la sua partecipazione come volontario alla prima guerra mondiale, l’esperienza in Africa e poi in America, la professione di medico una volta tornato in Francia.
Il libro venne pubblicato nel 1932 e suscitò scandalo ed anche entusiami.
Il “Voyage” è un viaggio reale, nei vari paesaggi umani e fisici e un viaggio simbolico attraverso la degradazione morale dell’uomo, attraverso il buio della morte individuale e sociale. Bardamu conosce la durezza della guerra, si arruola diciottenne come volontario, prova le sofferenze e le privazioni al limite della sopportazione raggiungendo in giovane età un inaudito distacco verso il terribile spettacolo della povertà, della fame, della morte. Fa amicizia con un certo Robinson, che potrebbe essere quasi considerato il suo doppio e che compare sporadicamente nei momenti più difficili della sua vita, miracolosamente.
La prima tappa del viaggio è descritta, per dirla con Giovanni Bogliolo, compianto accademico, come “la grande epopea della paura”, la macchina distruttrice di vite e di civiltà, la prima guerra mondiale
Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole.
Una volta in Africa, al servizio di una modesta società commerciale, Bardamu si scontra contro la crudeltà degli speculatori bianchi verso gli indigeni, che subiscono passivamente sevizie e maltrattamenti. A Tapeta (capoluogo inventato dell’immaginario Stato africano Rio de Rio)Bardamu, agonizzante a causa dei continui malesseri e della febbre che lo tormentano, verrà venduto da un prete come schiavo rematore su un galeone in partenza verso gli Stati Uniti.
“È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre”.
Giunto nel nuovo continente, Bardamu è alla prese con l’isolamento morale, con una una società ostile inebetita dal fordismo, profeticamente, parla di alienazione dell’uomo alla macchina:
“Nessuno mi parlava. Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio. Importava soltanto la continuità fracassona di mille e mille strumenti che comandavano gli uomini. Quando alle sei tutto si ferma ti porti il rumore nella testa, ne avevo ancora per la notte intera di rumore e odore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre. Allora a forza di rinunciare, poco a poco, sono diventato quasi un altro... Un nuovo Ferdinand”.
Tornato a Parigi, sceglie di vivere di espedienti, completa gli studi in medicina e lavora come medico. C’è un grosso problema però: Bardamu si vergogna a farsi pagare. È perciò sempre chiamato dai poveracci e vive in povertà. L’opera, tutta l’opera, ha per protagonisti infatti personaggi poveri ed equivoci, donne facili a scaldare i letti, e facili a tradire per mera sopravvivenza. Un caleidoscopio della malvagità, in cui il rigore morale di Bardamu si scontra contro la degradazione e soffre a doversi adeguare. L’ironia, il grottesco, una sorta di umorismo nero spesso però mi hanno strappato qualche sorriso.
La sua prosa nuova, diversa, fatta di espressioni gergali, dure, oscene, si arricchisce col linguaggio dei reietti, perché Céline vuole adottare il punto di vista dei poveri e degli emarginati, quelli sputati fuori dalla società. Uno stile di rottura con la classicità della lingua francese, un vero e proprio jazz linguistico, con dislocazione delle parole, anticipate o posticipate nella frase per il moltiplicarsi di risonanze nuove, mai udite.
Impressionante ciò che Céline dice di se stesso ad un giornalista
“Io devo entrare nel delirio. Come scrittore mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte. A tutto il resto sono insensibile”. (“Cèline, ovvero lo scandalo di un secolo”, Ernesto Ferrero, interessante scritto del traduttore, nelle ultime pagine dell’edizione Corbaccio).
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Commenti
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Sì tanti tanti autori e libri ancora da leggere grazie a voi, Q Amici
Non ti riconoscevo con questo nuovo avatar!
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