Dettagli Recensione
Black lives matter
L’atleta è di colore, e ha appena realizzato un gol.
Aspetta che anche l’ultimo dei compagni che è corso a congratularsi con lui si allontani; solo allora, con la visuale libera a uso dei media, profitta della sua popolarità di sportivo acclamato per trasmettere a una platea, ben più vasta di quella concessa a un uomo qualunque, la sua protesta: si abbassa fino a poggiare un ginocchio in terra, china il capo, pronuncia il suo omaggio silenzioso in memoria di George Floyd.
Perché ancora una volta, uno zio Tom di turno ha fatto le spese non tanto del sadismo, della bieca crudeltà o, peggio ancora, dell’ignoranza e del pressappochismo dell’uomo bianco su uno di colore. Floyd, come troppo spesso altri prima di lui, sono principalmente vittime dell’eterna diffidenza, del pregiudizio duro a morire, del pensiero tanto distorto quanto innato e immarcescibile in tanti che costui solo perché è nero, non è un uomo, non un tuo pari.
È ”straniero”, è diverso, è pericoloso, è cattivissimo, è ladro, bugiardo e mentitore, non gli puoi credere, non puoi fare affidamento se supplica qualcosa, non è affatto possibile che non riesce a respirare, malgrado lo stringi alla gola con il ginocchio caricando tutto il tuo peso.
Che cosa vuoi che sia? E poi, comunque vada, via, si sa, le vite nere NON contano.
Niente di nuovo sotto il sole.
Cambiano i tempi, i luoghi, le circostanze ma ancora ai nostri giorni la pigmentazione della cute di una persona è problematica irrisolta, spesso foriera di violenze gratuite. Oggi come ieri.
Nonostante un buon libro, semplice e ben scritto, e perciò efficace, quale questo “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, un’opera considerata miliare sulla via dell’abrogazionismo.
Già all’indomani della sua pubblicazione, fu dato alle stampe per la prima volta oltre un secolo fa, forse non diede l’input, come si usa dire esagerando un pò, difficile che un solo libro produca tanto scalpore, ma certamente in qualche modo scosse le coscienze della classe medio alta americana, quella dei benpensanti che contano, perciò la più importante, specie se basa le sue fortuna sull’industria e non sulla necessaria mano d’opera agricola e gratuita.
Il diffondersi, spesso ad arte, della tragica storia di uno sparuto gruppetto di schiavi neri nelle piantagioni di cotone nel sud degli Stati Uniti, alimentò anch’essa, nel suo piccolo, la presa di coscienza che portò ad un lungo e cruento conflitto civile, al termine del quale pareva proprio che la questione abolizionista fosse definitivamente passata in archivio.
Le sofferenze, le vessazioni e gli sfruttamenti degli schiavi nativi africani, e dei loro discendenti, erano state definitivamente poste al bando per legge, così parevano, e nessun uomo poteva essere in qualche modo discriminato ancora per il colore della pelle, o comunque per l’appartenenza a etnia diversa della maggioranza bianca dominante.
Chiarite una volta per sempre le colpe dell’uomo bianco e il suo sfruttamento della mano d’opera gratuita, alla base delle grandi fortune agricole nel Sud degli stati Uniti, sembrava che fosse definitivamente chiusa una delle pagine più abiette della storia dell’umanità.
Illusione che perdura tuttora, com’è dimostrato dal continuo bisogno di manifestare per riproporre il concetto che le vite nere contano, quando in realtà TUTTE le vite hanno valore, a prescindere dal colore.
La storia de “La capanna dello Zio Tom” è costruito bene, anche se scritta in maniera talora ingenua, quasi con piglio infantile, è stata perciò spesso considerata letteratura per ragazzi.
Non lo è. La scrittura usata è uno stile voluto, provocato ad arte, poiché all’autrice interessava che il messaggio arrivasse forte e chiaro, e non solo alle persone istruite della sua epoca.
Il Tom del titolo è uno schiavo avanti con gli anni, con un’apparenza mansueta e servile; tant’è che spesso questo personaggio, per quanto inventato, era quanto mai indicativo, è stato bersaglio nel corso degli anni di violenti critiche, in quanto rappresenta il prototipo del “buon negro”, un signor “Signorsì” in cui i neri liberi, animati da ben altra indole, mai e poi mai potrebbero riconoscersi.
La persona di colore rivendica la dignità della suo essere per quello che è, non per quello in cui deve limitarsi ad essere, invece Tom nell’immaginario dei critici al personaggio rappresenta colui che, pur di farsi in qualche modo accettare e benvolere nel consorzio degli uomini bianchi, si prostra alla loro autorità senza discussioni o ribellioni di sorta, ben lieto di eseguire quando gli viene chiesto, senza mai contestare la liceità di quanto gli viene ordinato, senza mai ribellarsi o protestare, mansueto e accondiscendente.
Pertanto è uno schiavo “fidato”, di affidamento, e perciò di valore. O un traditore della sua razza.
Invece, Tom non è né l’una né l’altra cosa, è semplicemente un uomo che pensa con la propria testa.
È un cristiano convinto, perciò di conseguenza un deciso sostenitore della non violenza.
Il buon “Zio Tom” tanto vituperato, è in realtà un campione della resilienza; è contento se una coppia di schiavi mulatti suoi sodali riesce a scappare in Canada, rischia la propria pelle per salvare dall’annegamento la vita della figlia di un uomo bianco, soccombe alle violenze omicide dello schiavista che lo assassina di botte pur di non abiurare al suo credo e a i suoi intendimenti, ringrazia Dio con animo lieto che la sua morte copra la fuga di altri schiavi, come Cristo sulla croce perdona i suoi persecutori. Non è uno stupido, non un eroe, o uno stucchevole buonista, tutt’altro, e neanche un fanatico religioso: è l’emblema di un uomo di buon senso, che sa che la schiavitù non ha senso, e però esiste, ma estirparla a forza è solo un palliativo, serve un lavoro agricolo di scavo alle radici annidate bene in profondità, un lavoro più fine e di qualità che il rude estirpare violentemente le erbacce. Tom è uomo ragionevole e coerente, fedele non ai suoi padroni ma alle sue idee, alla sua fede, e per questo disponibile a resistere e insistere, ma senza rispondere alla violenza con pari metodi, ma lasciandola scivolare su di sé a proprio discapito, mantenendo la fierezza delle sue idee come esempio per quelli a venire.
Insomma, un Mahatma Ghandi ante litteram, e come quello efficace, sebbene soccombente.
Degno di stima, e che serve a riflettere.
Per questo, è un libro che vale la pena leggere, oggi più di ieri.
Non è un capolavoro letterario, come una volta lo si definiva, equivocando tra letteratura e messaggio politico. Talvolta è anche pesante, oltre ad essere infantile e stucchevole, ma ci sta, dati gli intendimenti morali. Definirlo un romanzo per ragazzi, lo ripeto, mi pare, però falso se non riduttivo, anche perché ai tempi dell’autrice una letteratura per ragazzi neanche esisteva, a loro erano riservate le favole o poco più. Leggere libri era riservato a persone istruite, gente che viaggiava, che vedeva e sapeva giudicare da soli che la buona e bella capanna del vecchio Tom, descritta con tanto di orticello e vasetto di fiori, era una baggianata, i neri vivevano in baracche e non altro, come avviene tuttora negli slums e nei bassifondi americani.
Solo che ora…ora la situazione è esplosiva, la non violenza non è più di moda.
Chissà, forse rileggere “La capanna dello Zio Tom” è un po’ come voler affermare…la letteratura ci salverà. Speriamo. Tutto conta per una buona causa.