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Ecco a voi Sherlock Holmes
Un medico militare invalido e reduce dalle campagne in Afghanistan e uno strano studente in “non si sa bene che cosa” si incontrano casualmente e decidono di andare a coabitare per risparmiare soldi sull'affitto di casa. Come incipit non sembra particolarmente invitante se non fosse che è proprio in questo modo che il Mondo ha fatto la conoscenza di due dei personaggi più iconici della letteratura poliziesca: Sherlock Holmes e il dott. Watson. Già in questa prima indagine il giovane “consulente di investigatori” dimostra di possedere un acume prodigioso che gli consente, oltre a stupire i suoi interlocutori occasionali, di sbrogliare, in soli tre giorni, l’intricata matassa che vede impelagati gli ispettori Lestrade e Gregson di Scotland Yard. Costoro sono incaricati di scoprire chi ha ucciso brutalmente prima Mr. Enoch Drebber e poi il suo segretario, Joseph Stangerson, due cittadini americani da poco residenti a Londra. Ovviamente i due poliziotti non ne imbroccano una. Holmes, invece, già dopo il primo sopralluogo della casa in cui è avvenuto il primo delitto, sa indicare che tipo di persona vada ricercata; dopo pochi giorni, riesce, poi, a procedere al suo arresto.
Penso che nessuno possa dire, sinceramente, di ignorare chi sia Sherlock Holmes. Non esiste nessuno che non abbia mai letto, visto o sentito raccontare qualcosa che lo riguardi. Nessuno che, almeno una volta nella vita, non lo abbia preso a paragone per una metafora. Invero non c’è personaggio della letteratura poliziesca che sia più noto o plagiato che abbia dato origine a più epigoni, opere teatrali, film e telefilm. Nessuno ha ispirato così tante storie basate sulla medesima tecnica di indagine induttiva.
A questo punto cosa si può dire di originale sul romanzo che ha dato i natali al più grande investigatore di tutti i tempi? Che è stato un parto di genio? Che è scritto in modo mirabile e coinvolgente? Che in soli sette capitoli Conan Doyle ha saputo tratteggiare una figura che è restata nella storia mondiale e non solo della letteratura? Che lo stile usato oltre 130 anni fa è ancora fresco e attuale? Sì, forse, ma non sarebbero novità.
In realtà “Lo studio in rosso” non è di per sé un romanzo eccezionale e lo Sherlock Holmes che qui conosciamo ci appare come un personaggio piuttosto indisponente e antipatico, tutt’altro che carismatico. A dirla tutta riesce quasi a battere in avversione il Philo Vance di VanDyne. Inoltre la sua mirabolante capacità di indagine risulta irritante e supponente. La prima parte del romanzo, l’unica in cui lo si vede in azione, è narrata in modo subdolo e scorretto: l’A. nasconde al lettore gran parte delle informazioni che l’investigatore raccoglie e su cui ragiona. Tradisce, così, quel patto non scritto tra narratore e lettore che dovrebbe consentire anche al secondo di trarre le sue conclusioni. Delle due, risulta molto più coinvolgente la seconda parte del romanzo, dedicata a riferire la struggente storia dei Ferrier e di Jefferson Hope e a farci comprendere le ragioni del duplice omicidio. I personaggi di questa storia, ambientata nella cruda realtà della Frontiera americana e dominata dalle spietate leggi del mormonismo dei primi anni, sono assai più toccanti e coinvolgenti, al punto che veniamo portati addirittura a comprendere e giustificare il delitto. Ma, di per sé, neppure questa storia brilla di particolare originalità.
Tuttavia è innegabile che il cocktail di queste due vicende, apparentemente così diverse tra di loro, è sicuramente vincente. Alla fine non si può che ammirare Conan Doyle che, lavorando su un terreno pressoché vergine, è riuscito a innalzare solidissime fondamenta sulle quali è sorto l’imponente edificio del genere poliziesco moderno e, in fondo, pure l’indagine della polizia scientifica dei nostri giorni.