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In cui le donne si salvano da sé
"I tre moschettieri" è uno dei primi esempi di feuilleton, ossia di quello che da questo lato delle Alpi è conosciuto come il romanzo d'appendice; si tratta di storie caratterizzate da un netta contrapposizione tra buoni e cattivi, pubblicate ad episodi su alcuni quotidiani, anziché in un unico volume. Questo aspetto fa sì che la vicenda non risulti del tutto omogenea, ma si percepisca la volontà dell'autore di raccontare diverse avventure, collegate dalla presenta degli stessi personaggi che di volta in volta si trovano a dover svolgere una nuova missione o affrontare un determinato antagonista.
In piena corrente letteraria romantica, Dumas scrive una storia contenente molti dei capisaldi del filone, come la marcata nostalgia nei confronti del mondo cavalleresco medioevale
«"Sfortunatamente non siamo più ai tempi del grande imperatore [Carlomagno, NdR]. Viviamo nel tempo di monsignor cardinale [...]."»
dove tutto si poteva risolvere con un onesto duello, o anche il leggero alone del misticismo che si palesa -ad esempio- nella scena in cui la regina Anna e il duca di Buckingham confessano di aver fatto lo stesso sogno. In questa ambientazione storica, seppur arricchita (o impoverita, a mio modesto parere) da diversi rumours dell'epoca ai quali Dumas da ciecamente credito,
«"Sì, il signor cardinale, a quanto sembra, la perseguita e la tormenta [la regina Anna] più che mai. Non può perdonarle la storia della sarabanda. Sapete la storia della sarabanda?"»
comincia la storia dell'aspirante moschettiere D'Artagnan, giovane guascone che negli anni Venti del Seicento lascia la casa paterna per raggiungere Parigi ed inseguire il suo sogno; fin dalle prime pagine vediamo delinearsi il suo rapporto di amicizia con i tre moschettieri del titolo, così come l'antagonismo marcato con il "misterioso" uomo di Meung e Milady.
Per presentare il suo romanzo, Dumas sfrutta un escamotage caro -tra gli altri- a Hawthorne ne "La lettera scarlatta", fingendo di aver ritrovato una sorta di memoriale del nostro D'Artagnan. Purtroppo l'incredulità del lettore rimane sospesa decisamente per poco, dal momento che parecchie scene non possono proprio essere descritte dal punto di vista del protagonista, e neppure raccontate a lui da terzi.
Un problema che affligge la ricchissima trama è il voler proseguire in una determinata direzione a prescindere da tutto: ciò va spesso a sacrificare il realismo del romanzo, sia in termini di balzi temporali e spaziali inspiegabili sia di personaggi stravolti nella loro caratterizzazione. Ed è un peccato, visto che proprio i personaggi sono uno degli aspetti più rilevanti e positivi del titolo.
Ho apprezzato l'evoluzione genuina del rapporto tra D'Artagnan e i moschettieri, come pure con i loro valletti, seppur in un primo momento si abbia una sensazione di forzatura. In particolare la relazione con il fido Planquet risulta bilanciata e molto divertente.
«"Hai paura, Planquet?"
"No, soltanto faccio osservare al signore che la notte sarà freddissima, che il freddo dà i reumatismi, e che un valletto reumatizzato diventa un buono a nulla [...]."»
Si nota anche come Dumas non dipinga i suoi eroi come perfetti: pur essendo dalla parte del "bene", ci vengono spesso rimarcati i lati peggiori dei loro caratteri, come la strafottenza nel caso di Buckingham:
«Così, sicuro di se stesso, convinto del suo potere, certo che le leggi che reggono il comune degli uomini non potevano valere per lui, egli andava diritto allo scopo che si era prefisso, [...].»
La mia preferenza va però agli antagonisti, per la loro maggior sfaccettatura, con la sola eccezione del conte di Rochefort. Il cardinale si dimostra estremamente abile nell'influenzare l'opinione altrui, soprattutto quando si tratta di convincere re Luigi XIII della propria ritrosia nel fare ciò che si era ripromesso fin dal primo momento:
«"Veramente", disse il cardinale "per quanto mi ripugni fermare il pensiero sopra un tradimento simile, la Maestà Vostra mi ci fa pensare [...]."»
E cosa dire di Milady? non mi aspettavo avrebbe ottenuto così tanto spazio nella narrazione, diventando quasi una seconda protagonista. Ho ammirato moltissimo la sua determinazione ed il suo coraggio,
«"Il mio Dio", disse. "Fanatico insensato che sei. Sono io stessa il mio Dio, io e colui che mi aiuterà a vendicarmi."»
che mi hanno ricordato la mia adorata Magdalen da "Senza nome" di Wilkie Collins, soltanto con degli obiettivi meno condivisibili.
Lo stile di Dumas è generalmente semplice e godibile, in larga parte per merito dell'umorismo che permea l'intera storia con le sue battute pungenti,
«Planchet, due ore prima, era venuto a chieder da mangiare al suo padrone, il quale gli aveva risposto col proverbio: "Chi dome pranza". E Planquet pranzava dormendo.
Un uomo entrò, d'aspetto sempliciotto e che sembrava un borghese. Planchet avrebbe sì voluto sentire la conversazione, che sarebbe stata come la frutta del suo pranzo,[...].»
volte in alcuni casi a criticare la società, sia essa accostata al potere temporale del sovrano o a quello (per nulla) spirituale della Chiesa.
Aspetto meno gradevole è la netta separazione tra narrazione e dialoghi, che quasi sempre sono dei blocchi continui privi di indicazioni sui personaggi o l'intonazione; credo che questo potrebbe essere collegato all'attività di Dumas come drammaturgo, ma ciò non toglie sia fastidioso e crei confusione.
Ciò che più mi ha deluso è però l'edizione della Rizzoli, casa editrice generalmente valida per quanto riguarda le sue edizioni dei classici; in questo caso mi sono trovata con un volume privo di revisione -lo si nota per i tantissimi errori di battitura come segni grafici assenti o parole storpiate- e con una traduzione decisamente aggiornabile, specie quando il povero Patrick, uomo di fiducia di Buckingham, viene italianizzato senza alcun motivo
«"Chi devo annunciare a milord?", domandò PATRIZIO.[...]»
seppur per una sola volta. E pensare che avevo snobbato la mia vecchia edizione Newton Compton e comprato questa nuova di proposito!
NB: Libro letto nell'edizione Rizzoli BUR