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Mostro di carta
Frankenstein è uno di quei libri che viene molto più citato di quanto sia letto e che soprattutto è entrato prepotentemente nella cultura popolare attraverso trasposizioni, riduzioni e imitazioni di ogni tipo. Il mostro innominato, la “cosa” orribile ha finito persino per usurpare il nome dello scienziato suo creatore per rappresentare nel linguaggio comune l’emblema di ogni artificioso assemblaggio meccanico e contro natura. Ci è persino capitato di sentir parlare di “governi Frankenstein”, o di alleanze politiche, o disposizioni di legge qualificate con lo stesso appellativo.
Stiamo parlando, infatti, di molto più che un libro. L’interesse per la sua lettura va ben oltre il valore letterario delle sue pagine.
Nell’estate del 1816 la diciannovenne Mary Godwin, in compagnia del suo “cavalier Folletto” Percy Shelley e della sorellastra Claire, si recò sul lago di Ginevra, a poca distanza da Villa Diodati, dove soggiornava Lord Byron accompagnato dal suo medico personale. A causa delle frequenti piogge, il gruppo ingannava il tempo leggendo romanzi gotici tedeschi. Fu Lord Byron a lanciare la sfida ad inventare ognuno una storia terrificante. Ma solo la giovane amante di Shelley la portò a termine.
Le conseguenze tragiche a cui può portare un domino violento della scienza sulla natura, il destino nefasto dell’ambizione e della sete di sapere, che diventa sete di potere, la paura del diverso e l’odio che ne può derivare, il diritto di ogni creatura ad essere accettata e amata per ciò che è, il veleno prodotto dall’abbandono, dall’amore negato o non ricambiato: questi sono i temi del romanzo che a distanza di due secoli riescono ancora a scuoterci e a turbarci.
Anche dal punto di vista culturale, l’opera di maggior successo di Mary Godwin Shelley contiene molti vistosi collegamenti. A parte la tradizione del romanzo gotico, che è all’origine dell’ispirazione, troviamo richiami alla mitologia e alla tragedia greca (Prometeo, Edipo) all’eterna lotta tra bene e male (Milton, il Paradiso perduto) e tra cuore e ragione (siamo in pieno Romanticismo). La Shelley poi flirta con il romanzo epistolare (espediente che le consente di rappresentare in soggettiva e in profondità le emozioni dei diversi personaggi), descrive ambienti e paesaggi degni della pittura di Friedrich e di Turner, fa da contrappunto al mito del buon selvaggio e infine crea un archetipo nel genere filosofico-avventuroso che la congiunge idealmente tanto a Meliville e alla sua Balena Bianca quanto a Philip D. Dick e ai suoi androidi.
Per non parlare della biografia dell’autrice. Figlia di William Godwin (utopista anarchico e romanziere) e di Mary Wollstonecraft (protofemminista, autrice di “A Vindication of the Rights of Woman”) non conobbe mai la mamma, che morì alla sua nascita per le conseguenze del parto (la mancanza di una madre e l’abbandono alla nascita sono uno dei tratti più toccanti del mostro descritto nel romanzo). Tutta la sua vita fu costellata da una incredibile serie di lutti, suicidi e sciagure che non risparmiarono nemmeno i suoi figli, uno solo dei quali sopravvisse fino all’età adulta. E poi la prematura morte del poeta, al largo di Lerici. E la vita sentimentale turbolenta e sfortunata, gli scandali, le mortificazioni, le ristrettezze economiche, i pregiudizi, le incomprensioni.
Sembra quasi che il mostro creato sulla carta da Mary Shelley in una notte buia e tempestosa, dopo aver perseguitato lo scienziato Victor Frankenstein (il suo creatore fantastico) abbia riversato la propria incolmabile furia vendicatrice sulla sua creatrice materiale, per poi sopravviverle e vagabondare come un implacabile e inconsolabile demonio nell’immaginario collettivo di ogni tempo.
E’ ancora una lettura interessante nel ventunesimo secolo? Non c’è dubbio che sui temi trattati sono stati scritti fiumi di parole e sono disponibili opere più fresche e moderne. Tuttavia, come Bansky non cancella Michelangelo, possiamo ancora continuare a godere di un capolavoro di duecento anni fa. E possiamo anche riconoscerne laicamente i limiti. A cominciare dallo stile acerbo, a tratti adolescenziale, dal tono eccessivamente didascalico, dal sentimentalismo profuso a piene mani e soprattutto da una ridicola, ingenua e futile esaltazione del valore della cultura (impagabili le pagine in cui il terrificante mostro, reietto e nascosto in un capanno, spia una famiglia all’apparenza contadina, in realtà di nobile lignaggio, e si istruisce niente meno che sulle opere di Milton, Goethe e Plutarco), appena appena riscattata dalla denuncia dei suoi pericoli (la conoscenza genera consapevolezza e quindi infelicità). Infine c’è il vizio di mettere troppa roba nel piatto, che a me risulta particolarmente fastidioso. Ad un certo punto, in ossequio al fascino esercitato in quegli anni dall’Oriente, compaiono persino un mercante turco con una bellissima figlia, per un’improbabile avventura che spazia da Costantinopoli a Parigi, l’Italia e le Alpi svizzere. Anche Jules Verne (penso ad esempio al Giro del mondo in 80 giorni) incorre spesso nel paradossale e nell’inverosimile: la differenza sta tutta nella presenza oppure nella totale assenza di ironia. Mary Shelley scrive il romanzo ancora molto giovane (e comprensibilmente eccitata dall’effervescenza intellettuale che la circonda fin dalla nascita) e si prende terribilmente troppo sul serio.
Per rendere l’idea, i lati deteriori del romanzo mi ricordano moltissimo un successo letterario di qualche anno fa (L’eleganza del riccio), che spiccava soprattutto per artificiosità e oleografia e che non escludo abbia avuto proprio la Shelley tra le principali fonti di ispirazione.
Nonostante i suoi limiti “Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo” è un grande romanzo, patrimonio della nostra cultura. Il messaggio arriva e colpisce il bersaglio ancora oggi: merito del mostro di carta che ha ispirato ogni successiva forma di umanità disumanizzata e soprattutto merito della sua creatrice, mostro di bravura.
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Commenti
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Diversamente da te, ho trovato questo stile, che definisci "acerbo" , di una sua bellezza estetica peculiare, di stampo preromantico, che ben si abbina alla narrazione. E' pur vero che non ho cercato nessun altro scritto dell'autrice, già 'saziato' , per così dire, da questo romanzo. E, al momento, senza alcuna voglia di rileggerlo : indice che l'ho apprezzato, ma senza provarne poi nostalgia.
Grazie e un saluto!
Sullo stile di Frankenstein, mah! Come sai, io non sono molto severo con i punteggi, tendo sempre a rispettare l'opera e la fatica dell'autore, ma stavolta proprio non ce l'ho fatta (Eppure la Shelley mii ispira molta simpatia e la considero una grande, come grande è il romanzo, pur con tutti i suoi difetti).
Credo che sia un certo tipo di scrittura femminile ad urtarmi in particolar modo, quel tipo di scrittura artificiosamente raffinata, che pretende di occuparsi di marinai e guerrieri come se fossero ballerini dell'Opera. E soprattutto non sopporto le forzature, dettate dall'inesperienza. E' come vedere l'impalcatura che regge la scena a teatro, o l'attore che perde il trucco: semplicemente non è più credibile, si rompe il patto tra il lettore e il narratore, per grave imperizia di quest'ultimo
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