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UN RISO CHE SI STROZZA IN GOLA
Si narra che Samuel Beckett, ai tempi in cui curava il primo allestimento di “Aspettando Godot”, era talmente consapevole della natura provocatoria della sua opera che si preoccupava quando vedeva troppo pochi spettatori che si alzavano ed uscivano durante lo spettacolo. Il tempo passa, ed è curioso constatare come “Aspettando Godot” sia nel frattempo diventato un classico del teatro del ‘900, frequentemente rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo. In effetti si tratta di un’opera di grande tensione, concentrazione e drammaticità, che non dimentica però mai il lato comico, la clownerie che doveva essere tanto cara a Beckett (“Non c’è nulla di più comico della tragedia, aveva scritto il grande commediografo: in questo senso Vladimiro ed Estragone sono come la coppia di un buddy movie del secolo scorso e certe sequenze, come quella dello scambio di cappelli, sembrano uscire proprio da un film dei fratelli Marx). Una scena fra tutte è stata soprattutto capace di strapparmi lacrime di puro, allucinato divertimento: è quella in cui Lucky, fino ad allora muto, inizia a sproloquiare come un fiume in piena, senza che nessuno, né il padrone Pozzo né i due protagonisti, che si agitano burattinescamente senza sapere cosa fare, riesca a fermarlo.
Si narra anche che Beckett rifiutasse l’equazione Godot = Dio (che in inglese – guarda caso – è proprio God). Eppure ritengo più che plausibile l’ipotesi che la stolida e inappagata attesa di Vladimiro ed Estragone sia in qualche modo metafisica. Vladimiro ed Estragone non conoscono l’identità della persona che ha detto loro di aspettarlo presso il grande albero, il ragazzo che annuncia per due volte che il “padrone” non verrà per quel giorno ma sicuramente si presenterà l’indomani sembra un angelo, quando si domandano cosa faranno con Godot quando l’avranno incontrato ciò che viene loro in mente è “una supplica, una preghiera”, e infine il motivo che Vladimiro adduce circa il perché non smettono una buona volta di aspettare il fantomatico Godot è che questi “potrebbe punirli”. Quindi Godot potrebbe legittimamente essere Dio, ma è altrettanto vero che il significato dell’opera non cambierebbe di molto se il misterioso personaggio del titolo venisse semplicemente interpretato alla stregua di una delle molteplici illusioni che l’uomo si crea per dare un senso qualsivoglia alla propria vita, quasi un alibi per continuare a vivere (o a sopravvivere) senza assumersi alcuna responsabilità, neppure quella di farla finita e suicidarsi. La mira di Beckett è molto alta: “Aspettando Godot” parla, in maniera astratta e stilizzata ma inequivocabile, della condizione dell’intera umanità. Ed è una umanità degradata, afasica, alienata, incapace di comunicare e in cui lo stare insieme è una questione più di abitudine (Vladimiro ed Estragone) o di brutali rapporti di forza, da schiavo e padrone (Pozzo e Lucky), che di cameratismo, solidarietà e compassione.
In un mondo deprivato di sentimenti, in cui la felicità è forse possibile solo sognarla, e oltretutto i piedi dolgono e l’incontinenza assilla, non c’è neppure il conforto della memoria (i personaggi non ricordano neppure ciò che hanno fatto il giorno prima) o della cultura (come dimostrano i vaniloqui dei due amici o le farneticazioni pseudo-dotte, da computer impazzito, di Lucky). Tutto appare inutile, e questa sensazione di inanità e di forzosa ripetitività non fa che accentuare la escheriana circolarità del testo. Sui personaggi un albero spoglio e spettrale incombe per tutto il tempo come il simbolo di un fato impassibile e imperscrutabile E’ però da questa scenografia, da questo albero praticamente morto, che promana l’unico, vago barlume di ottimismo della commedia: all’inizio del secondo atto spuntano infatti sui rami alcune foglioline verdi che prima non c’erano. Non hanno forse alcun significato preciso, come del resto quasi tutto il resto, eppure è come se con esse l’autore non avesse voluto negare del tutto ai suoi grotteschi eroi uno spiraglio, per quanto improbabile, di speranza.
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