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Un'opera omnia
Tutto è già stato scritto, tutto già commentato a proposito di questa opera grandiosa e solenne. Diventa pertanto complicato scrivere una recensione senza risultare banali o annoiare, ma a conclusione di una lettura così imponente, dopo una mese passato in compagnia dei fratelli Karamazov, si sente forse questa esigenza di raccogliere qualche idea in proposito e lasciarla su queste pagine. Più che un romanzo si può forse considerare “un’opera omnia”, perché Dostoevskij affronta una serie di tematiche, di questioni esistenziali nelle quali l’intera umanità si riconosce, riscontrabili nell’operato dei quattro fratelli K., che emblematicamente, assumono una portata simbolica. Citando le parole pronunciate dal procuratore durante la requisitoria, nel dibattimento processuale a carico di Dmitrij accusato di parricidio, si capisce che i Karamazov sono “creature vaste…capaci di mescolare tra loro tutte le possibili contraddizioni e in un colpo solo contemplare entrambi gli abissi, l’abisso che sta sopra di noi, quello degli ideali superiori e l’abisso che sta sotto di noi, quello del degrado più basso e fetido”. I quattro fratelli sono eroi tipicamente Dostoevskiani che si fanno carico di quella dicotomia bene-male così evidente in tante opere dell’autore.
A partire da Alesa (o Aleksej), il fratello buono e puro per antonomasia, evidente portatore di bene, assoluto credente. La fede e la bontà sono ingredienti di cui questo libro è colmo ed i messaggi di amore verso il prossimo riecheggiano frequentemente scorrendo le tante pagine, distribuiti dall’autore nelle mani (e nella bocca) non solo di Alesa ma anche dello Starec Zosima, figura monacale intrisa di santità, quasi una personificazione di Cristo sulla terra: “ Amatevi gli uni con gli altri….Amate il popolo di Dio…Non abbiate paura del vostro peccato, persino quando l’avrete riconosciuto, purchè vi sia il pentimento”.
Da contrappeso a questa spiritualità si staglia la figura di Ivan, l’altro fratello ateo, intellettuale razionale, colui che sostiene che “in effetti è stato l’uomo che ha inventato Dio. E quello che è strano….non è che Dio esista davvero, ma meraviglia che un simile pensiero…possa essersi insinuato nella mente di un animale malvagio e selvaggio come l’uomo”. Ivan nel dimostrare il suo pensiero ateo ed il suo disprezzo nei confronti delle istituzioni ecclesiali, racconta ad Alesa la storia del ”Grande inquisitore”, uno dei capitoli più commoventi dell’intero libro, uno “spin-off” che gode di vita propria, nel quale si dimostra l’esercizio del potere temporale da parte della chiesa sulle masse, avvenuto nel presunto nome di Cristo. Sempre Ivan è il fratello che dialoga con il diavolo sull’esistenza di Dio e su un concetto di felicità e piacere a cui gli uomini potrebbero aspirare, qui sulla terra, indipendentemente dall’esistenza di un creatore. Discussione che in qualche modo ricorda molto da vicino alcuni passi del Maestro e Margherita di Bulgakov.
Si passa quindi all’altro fratello, Dmitrij, ufficiale irascibile, a tratti violento ma allo stesso tempo generoso. Dmitrij a differenza di Alesa e Ivan ha una personalità più complessa in lui si riconoscono quei frammenti di bene e di male così naturali nell’uomo. Dmitrij è l’uomo passionale, innamorato, che ha perso la testa per Grusenka, ed è in competizione col padre a sua volta innamorato della stessa donna. Lungo la dorsale dell’amore e della gelosia, della lotta tra consanguinei per accaparrarsi le grazie femminee, agendo in un ”campo di battaglia” in cui qualsiasi bassezza compiuta, qualsiasi scorrettezza è ritenuta lecita, Dostoevskij costruisce il suo racconto che ruota attorno all’episodio del parricidio. Episodio che evidenzia la forte componente psicologica anch’essa assai presente nel romanzo, anticipatrice del pensiero Freudiano: “è stato ucciso un padre e fanno finta di provare orrore…tutti desiderano la morte del padre”. Dmitrij assurge a capro espiatorio di tutte le tensioni esistenti, di tutte le nefandezze che questo padre ha compiuto, ma gli altri fratelli ne sono in qualche modo solidali, tanto che il vero quesito, rilevante e quasi giustificatorio a fronte di un potenziale parricidio, a proposito del ruolo della paternità e delle responsabilità che ne derivano, viene riportato dall’avvocato difensore durante la sua arringa dibattimentale: “generare non vuol dire ancora essere un padre, ma padre è colui che genera e si merita questo nome”.
Affermazione che sicuramente calza a pennello per il quarto dei fratelli, Smerdjakov, in realtà fratellastro, figlio epilettico ed illegittimo, dal comportamento ambiguo e simulatorio, di certo non tenero nei confronti del genitore padre che non lo ha riconosciuto e che in cambio gli offre esclusivamente un posto in casa con gli altri servitori.
Dostoevskij avrebbe voluto dare un seguito a quest’opera immensa ma la morte lo ha colto poco dopo senza dargli (e darci) questa possibilità, regalandoci in ogni caso un capolavoro di stile e di contenuto in cui la dimensione della sofferenza è assolutamente mitigata dal senso di speranza nel futuro e negli uomini, grazie anche ad una forte componente mistica che si ritrova nelle parole di Alesa a proposito della resurrezione: “Risorgeremo senz’altro, senz’altro ci vedremo, e con gioia, con allegria, ci racconteremo tutto quello che è stato”.
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Un libro mastodontico, non solo e non tanto per la mole. Molto complesso. Vorrei rileggerlo.
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