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STORIA DI UNA DONNA PERDUTA
“La signorina Giulia” è un atto unico recitato, nel rispetto delle unità aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, da tre soli personaggi, anzi quattro, se si considera anche quello del conte che, in absentia, è metonimicamente rappresentato dagli stivali presenti in un angolo della scena. La figura del conte aleggia silenziosamente su tutta l’opera e il suo viaggio, che coincide con la festa di San Giovanni (una di quelle ricorrenze dei paesi del Nord per cui vale il detto “semel in anno licet insanire”), è l’occasione per una inaudita e scandalosa abolizione delle differenze di censo e di classe tra la figlia del conte, Julie, e il suo domestico Jean, in un serrato e sensuale gioco di seduzione cui partecipa anche, nel ruolo di terzo incomodo, Kristin, la fidanzata dell’uomo, nonché cuoca in casa del conte. Con la sua spietata e pessimistica visione della vita Strindberg tratteggia un personaggio che percorre nell’arco di poche pagine tutta la parabola discendente che dalla sfrontata e odiosa sicumera di nobildonna conscia dei propri privilegi la conduce fino all’infamante degradazione di femme perdue, stretta tra l’onta per aver tradito l’onorabilità della famiglia e il disprezzo di chi, dopo averla usata e fatto balenare in lei la prospettiva di una esistenza nuova, la ricaccia nella disperazione più totale e senza altra via d’uscita che quella del suicidio. In fondo Strindberg anche qui non fa altro che analizzare, al di là delle differenze sociali, l’eterna lotta tra i sessi, anche se, contrariamente a tante altre opere, ad essere sconfitto questa volta non è l’uomo ma la donna. Il drammaturgo svedese ci dice che chi in amore si espone mettendo a nudo i propri sentimenti senza fingimenti e senza calcoli è inevitabilmente destinato a soccombere, vittima sacrificale di un mondo in cui vige hobbesianamente la legge del più forte.
Il dramma strindberghiano ha nei simboli e nelle metafore uno dei propri punti di forza (degli stivali del conte ho già detto, ma si pensi anche all’ingravidamento della cagna del conte da parte di un bastardino, allo sgozzamento dell’uccellino freddamente perpetrato da Jean il quale, qualche minuto più tardi, offrirà cinicamente il coltello a Julie come unica soluzione per rimediare all’insostenibile situazione creatasi, con ciò mettendosi in disparte e lavandosene vigliaccamente le mani). E’ però con gli incubi dei due protagonisti che questo procedimento simbolico raggiunge gli esiti migliori: Julie, che sogna di essere in cima a una colonna da cui vorrebbe scendere senza saperlo fare a causa dell’altezza, e Jean, che al contrario agogna ad arrampicarsi su un enorme albero liscio, con il ramo più vicino troppo in alto per essere afferrato, sono infatti una chiara immagine delle contrastanti aspirazioni dei due, che alla fine troveranno una contraddittoria realizzazione, Julie precipitando verso la propria rovina e Jean riuscendo a farla franca e a continuare a vivere, sia pure da servo, come se nulla fosse successo proprio grazie al provvidenziale sacrificio della ragazza. Come in altre sue opere (“Il padre”, ad esempio), Strindberg rovescia beffardamente la situazione di partenza e trasforma l’energica e sensuale protagonista in un personaggio commovente, fragile e indifeso, facendo percepire come in controluce, ma con ineluttabile chiarezza, la tragica sorte che il destino ha spesso riservato, da Didone a Francesca ad Anna Karenina, alle anime troppo nobili e appassionate.
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