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IL CANTO DELLA VITA (ONDA SU ONDA)
“A volte penso di non essere una donna, ma la luce che cade su questo cancello, su questa terra. Sono le stagioni, a volte penso, sono gennaio, maggio, novembre, il fango, la nebbia, l’alba.”
Coniugare l'istante e l'eternità, far convivere nelle stesse pagine il passato, il presente e il futuro, è davvero un'impresa immane, titanica, sovrumana quasi, ma Virginia Woolf, con “Le onde”, è riuscita a portarla magistralmente a compimento. Opera sperimentale come poche altre, la Woolf stessa, mentre la componeva, la considerava “astratta, mistica, senz'occhi (eyeless)”. Definirla un romanzo è invero riduttivo e fuorviante: si tratta piuttosto di un poema in prosa, in cui quella che scrive, più che a una penna, assomiglia a una magica antenna capace di captare e di percepire le impressioni più sottili, sfumate e impalpabili della realtà. “Le onde” non ha una trama (l'autrice ha sempre sostenuto del resto di non scrivere “a trama” ma “a ritmo”), bensì una elaborata struttura in cui nove interludi lirici, nei quali viene descritta nei suoi infiniti riflessi atmosferici e naturali una intera giornata, dal sorgere del sole al calare delle tenebre, si alternano ai soliloqui di sei personaggi, dalla prima infanzia fino alla loro vecchiaia. Negli interludi, il progressivo avanzare della luce e il contestuale ritirarsi dell'oscurità, l'emergere di forme, colori e contorni delle cose a scapito delle ombre, il risvegliarsi cinguettante degli uccelli e – soprattutto – il tonfo sordo, ovattato e costante delle onde del mare, sono espressi con una prodigiosa, strabordante, minuziosissima ricchezza di dettagli, restituendo in toni di alta poesia l'immanenza di una natura indifferente, insensibile, inumana, una “sinfonia di armonie e dissonanze, di melodie in superficie con un complicato basso di fondo”, che si ripete dall'inizio della creazione, sempre uguale eppure sempre misteriosamente, indecifrabilmente, diversa. Del tutto differente è la dimensione dei monologhi interiori dei sei personaggi, nei quali si riflettono le aspirazioni e le paure, gli ideali e le idiosincrasie, gli slanci e le sofferenze, le passioni e i rimpianti, vale a dire tutte le mutevoli, variegate ed imperfette sfaccettature dell'animo umano. Uomo e vita, destini effimeri e transeunti da una parte e impersonale ed eterna forza della natura dall'altra, si mescolano, si amalgamano, dando in tal modo corpo a pagine immaginifiche e colme di una vibratile e ineffabile sensibilità, eroicamente capaci di abbracciare e contemplare l'intera sfera del tempo. I sei personaggi, tre uomini (Bernard, Neville e Louis) e tre donne (Rhoda, Susan e Jinny), amici fin dal periodo dell'infanzia eppur così dissimili tra loro, sono in realtà parti di un medesimo io, come petali di un unico fiore o gocce d'acqua di uno stesso, identico mare. In essi Virginia Woolf ha riversato un'infinità di caratteristiche autobiografiche, dall'ansia di scrivere di Bernard allo snobismo intellettuale di Neville, dalla solitudine e dallo straniamento di Louis alla ipersensibilità e al terrore del mondo di Rhoda. E' proprio Rhoda, fragile sognatrice e vittima degli shock provocati dalle sensazioni (“Devo avanzare circospetta per non cascare dall'orlo del mondo nel nulla”), a suscitare le maggiori emozioni, prefigurando con il suo suicidio (“Ci buttiamo giù nel precipizio […] Il mare mi rimbomberà nelle orecchie […] Travolgendomi, le onde mi spingeranno sotto. Con un tremendo scroscio tutto precipita, io mi dissolvo.”) il tragico destino della scrittrice. La Woolf ha messo molto di sé ne “Le onde”, fino al punto di apparire all'interno stesso del libro, nella figura della signora che, nel giardino-eden di Elvedon, Bernard e Susan bambini spiano mentre è intenta a scrivere, seduta al tavolo tra due porte-finestre: sembra proprio, similmente a quei personaggi ai margini del quadro, confusi tra la folla, nei quali certi pittori rinascimentali ritraevano se stessi, l'autoritratto dell'autrice, in pratica una sorta di firma autografa posta, anziché in epigrafe, nel corpo del romanzo. L'immagine della donna che scrive ritorna più volte nel libro, così come diversi altri leitmotiv: la falena che sbatte contro il vetro di una finestra nel tentativo di uscire all'aria aperta, la pozzanghera che Rhoda non riesce ad attraversare e – ovviamente – le onde, che si infrangono senza sosta come gli zoccoli di un cavallo che scalpita. Presenza costante de “Le onde” è soprattutto la morte, che mina con la sua ineluttabilità (incarnata nel personaggio di Percival, che muore nel fiore degli anni cadendo da cavallo) la futile ricerca di un senso della vita da parte dei sei amici. Dalla spensierata sicumera dei primi anni (“non ho ancora intaccato il mio tesoro”, ripete spesso la sensuale Jinny, pensando al proprio futuro che immagina luminoso e illimitato) si passa gradatamente, sconsolatamente, al vuoto, al tedio, all'infelicità. A tratti, la monotona e immutabile superficie del mare della vita viene rotta dalla pinna di un pesce, metafora della fugace e passeggera felicità umana, che emerge per qualche attimo. Ma poi tutto ritorna come prima e il tempo, che all'inizio sembrava una distesa sterminata, riprende il suo consueto stillicidio (“Il tempo fa cadere la sua goccia. La goccia che s'è formata sul tetto dell'anima cade. Dal tetto della mia mente il tempo gocciola. [...] La goccia che cade è il tempo che si assottiglia fino a diventare un punto. Il tempo, che è un pascolo assolato inondato di luce danzante, il tempo, che è vasto come un campo a mezzogiorno, si stacca, si assottiglia, diventa un punto. Come da un bicchiere stracolmo la goccia, così il tempo cade.”). C'è a tratti il desiderio di fermarsi per sempre nel presente, nel qui e ora (“se quest'attimo durasse per sempre”), ma poi prevale la necessità di andare avanti ad ogni costo, avvinghiati a quel cavallo selvaggio che è la vita, aiutandosi con il patetico trucco del tran tran quotidiano (“al lunedì segue il martedì”), del lavoro e della famiglia. Con la prosaica e volgare realtà esterna e la fastidiosa e invadente presenza degli altri a zavorrare le ambizioni individuali diventa sempre più difficile, per la Woolf, trovare un senso di compiutezza e di autenticità nell'esistenza. E' per questo che la lotta contro l'impermanenza e la mancanza di significato della vita conserva un che di tragico, di eroico. Pur essendo destinato inesorabilmente a soccombere, all'uomo non resta, per non affogare, che cercare di contrastare le implacabili e incessanti onde della vita, in uno sforzo che ricorda il supplizio di Sisifo (“Anche in me l'onda si leva. Si gonfia, inarca la schiena. Ancora una volta sono consapevole di un nuovo desiderio, qualcosa che si solleva sotto di me come il fiero cavallo che il cavaliere prima sperona e poi frena. Quale nemico avvertiamo ora avanzare verso di noi, di te e di me che ti monto, mentre fermi su questo tratto di selciato scalciamo impazienti? E' la morte. La morte è il mio nemico. E' contro la morte che cavalco lancia in resta e capelli al vento come un giovinetto, come Percival, quando galoppava in India. Dò di sperone al cavallo. Contro di te mi slancio invitto e invincibile, oh morte!”).
“Le onde” è un libro meraviglioso, in cui la realtà concreta, fattuale, materica, trasfigura costantemente in una dimensione immateriale. Quello che descrive è un mondo magico in cui ogni cosa diventa il segno di qualcos'altro, in cui tutto si metamorfizza e si trasforma in altro da sé (“La mia mano sembra la pelle di un serpente. Le ginocchia sono delle isole rosa galleggianti. La tua faccia è un albero di mele”). La capacità della Woolf di costruire metafore e similitudini è ineguagliabile. Prendiamo ad esempio il primo interludio, in cui viene mirabilmente descritta l'alba: “L'onda si arrestava, poi si ritirava sibilando, come chi respira lento, regolare e incosciente nel sonno. Pian piano la striscia scura all'orizzonte si fece più chiara, come se in una vecchia bottiglia di vino il sedimento fosse calato a fondo lasciando il vetro verde trasparente. E dietro, come se […] il braccio di una donna distesa sull'orizzonte avesse sollevato una lampada, anche il cielo si schiarì...”. Allo stesso modo, per fare un altro esempio, in un orologio a muro “le lancette sono dei convogli che marciano nel deserto. Le tacche nere sul quadrante sono delle oasi di verde”. E' assai difficile poi togliersi dalla mente la sconvolgente immagine con cui la vita irrompe nella mente di Rhoda, “con sensazioni violente, intermittenti e improvvise come il balzo di una tigre”. La miracolosa sensibilità di Virginia Woolf prende ne “Le onde” la forma di uno stile di trascendente purezza, con frasi che brillano come gemme (“inondando le pareti della mente, il giorno si versa copioso, smagliante”) e immagini di strabiliante levità (“Ho tagliato a fette le acque della bellezza”). Certo, “Le onde” non è un libro facile: l'assenza di una trama, la sovrabbondanza di riferimenti eruditi e di citazioni colte, lo stream of consciousness onnipresente, mettono a dura prova il lettore. Del resto, la stessa Woolf, riferendosi a una lirica dell'amato Eliot letta da Neville, avverte che “per leggere questa poesia si dovrebbero avere migliaia di occhi, […] Bisogna mettere da parte antipatie e gelosie e non distrarsi. Bisogna avere pazienza e un'attenzione infinita, perché il suono leggero dei piedi delicati del ragno sulla foglia, o dell'acqua che gorgoglia in qualche conduttura ci giunga all'orecchio. […] Bisogna essere scettici, ma gettare al vento le cautele e quando la porta si apre accettare qualunque cosa senza riserve. A volte anche piangere; […] E lasciare che la rete affondi sempre più giù e poi delicatamente tirare e riportare alla superficie quello che ha detto lui, o lei, e farne poesia”. Sembra un vero e proprio manuale di istruzioni che l'autrice abbia nascosto tra le pieghe del romanzo al fine di mettere il lettore nelle condizioni di affrontarlo nella maniera più appropriata, una bussola gentilmente messa a disposizione per non smarrirsi nel suo labirintico interno. Tutto ciò non deve però spaventare nessuno: la lettura di quest'opera senza eguali nella storia della letteratura di tutti i tempi è infatti in grado di offrire momenti di squisito, paradisiaco godimento estetico e di far toccare le vette più alte e immacolate cui un amante dei libri può mai sperare nella sua vita di raggiungere.
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Leggere le pagine di Virginia Woolf significa inoltrarsi nella bellezza di una scrittura che rappresenta già un valore in sé.
E' un titolo che mi attira da tempo e che da tempo temo.
Il fatto che tu dica che la stessa Woolf si proietti nel testo, all'interno del giardino, mi galvanizza. Ho una fissazione per Monk's House, l'immagine della sua scrivania di fronte alla vetrata del capanno e' un mio punto fisso, ogni tanto la rimiro.
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