Dettagli Recensione
Cadere, come Silvia
Qualcuno prima di me si è chiesto cosa avrebbe scritto Camus dopo questo libro, dove sarebbe giunto il suo pensiero, perché il pessimismo e la disillusione cui “La caduta” approda, hanno davvero il peso di un macigno che nemmeno il Sisifo più volenteroso e felice potrebbe sollevare. In effetti il libro al quale Camus stava lavorando prima della morte, non era un romanzo, ma un’autobiografia, come se il personaggio di Clamence avesse alla fine davvero chiuso un cerchio e solo nei ricordi del suo maestro di scuola, dell’uomo che lo ha reso lo scrittore che è poi diventato, Camus avrebbe potuto trovare una nuovo calore, una nuovo punto d’inizio.
“La caduta” non è un romanzo perfetto, ma ricapitola, nella sua straordinaria densità, i temi cardine dello scrittore e ne sottolinea, ancora una volta, l’acume tagliente, l’implacabile e indefessa profondità con cui scava non solo nelle radici dell’esistenza, ma anche nell’amore, nell’amicizia, nell’ipocrisia. La scrittura di Camus è tale che, ogni volta che si pensa di afferrarla, essa raggiunge un livello ancora più alto, una percezione ancora più intensa del mondo. Mi pare che ogni suo libro sia in fondo una riflessione sull’impossibile impossibilità del mondo, ovvero sull’impossibilità di aprire un varco, un miracolo, nella maglia rigida dell’esistenza. Lo stesso varco che cerca il suo Caligola, quando in uno splendido atto terzo chiede a un suo suddito-poeta di poter avere la luna, è lo stesso squarcio che il protagonista Mersault non sa intuire nella sua asettica impassibilità e soprattutto lo stesso miracolo che Clamence non sa realizzare. Perché ogni miracolo è, in un certo senso, una forma d’amore e Camus ci ricorda che “non essere amati è una semplice sfortuna: la vera disgrazia è non amare”. Il dramma di “La caduta” è tutta qui: Clamence non sa amare, in lui tutto è voce del verbo, chiacchiera e discorso, retorica; tutto il suo parlare, la sua sofistica, non è altro che la prosopopea di chi intuisce il giusto per logica, senza però sentirne l’urgenza, di chi conoscendo il male, non sceglie il bene. Il miracolo che avrebbe potuto arrestare la parabola discendente di questo libro era un tuffo, un atto di pura abnegazione, ma ancora una volta, nella paralisi di Clamence, Camus ci ricorda che non basta conoscere le maglie dell’assurdo per poterle spezzare. Non è un caso che il cuore del romanzo sia il suicidio di una ragazza, perché nel suicidio l’uomo è chiamato a portare alle estreme conseguenze il disgusto di una vita straniante nella sua pleonastica gratuità, eppure un vita che, al di là di ogni percezione razionale, l’uomo non è in grado di abbandonare. In fondo Clamence sa di essere al culmine della disperazione, là dove secondo Cioran la vita disgusta tanto quanto la morte, ma non ha abbastanza tempra per poterlo sostenere e allora tutto il discorso diventa una forma estrema di divertissement.
Quello che non funziona è che Camus tocca verità limpide tramite la voce di un personaggio creato e plasmato per non raggiungerle mai, condensa una quantità enorme di pensieri in uno spazio tanto stretto da diventare concettoso e lo stile non riesce a sostenere le ambizioni dell’opere. L’esito è che il libro rischia di sfaldarsi su se stesso e che nessun pensiero, una volta chiuso, resterà davvero impresso. È certo che con Clamence, Camus silenzia l’ipocrisia esistenzialista e fa crollare, una volta per sempre, la speranza, unica vera vittima di questa caduta.
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Commenti
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Quando la recensione è tardiva, tra le molteplici motivazioni del ritardo c'è anche la perplessità che un libro di un autore importante ci può lasciare. Niente da fare, tante tematiche interessanti non sviluppate adeguatamente in un libro così breve e messe in bocca ad un uomo antipaticamente narcisista.
Acute osservazioni, Dany!
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