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Le notti bianche
 
Le notti bianche 2020-01-12 14:09:49 Erich28592
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3.8
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4.0
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Erich28592 Opinione inserita da Erich28592    12 Gennaio, 2020
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Immanenza e trascendenza

“Ci sono scrittori per cui non servono introduzioni. La lettura delle loro opere è un rischio che ogni lettore deve correre in modo individuale, autonomo: troverà sempre una risposta, che nessun altro gli potrà suggerire, ai problemi, ai conflitti posti dalla propria epoca, dal proprio livello culturale.”

Con queste poche, semplici parole Fausto Malcovati apre la sua introduzione alla vita e alle opere di Fëdor Dostoevskij nell’edizione Garzanti in mio possesso del racconto “Le notti bianche”, apparso per la prima volta nel 1848 sulla rivista di letteratura russa “Annali patrii”, e ripubblicato a Mosca nel 1860.
Proprio attorno a questa riflessione vorrei costruire il mio contributo, dal momento che - ve lo confesso - quest’opera di Dostoevskij rappresenta il mio primo incontro con questo gigante della letteratura russa, nonché la mia seconda escursione letteraria di sempre nel Paese degli Zar (fino allo scorso anno, infatti, mi ero cimentato nella sola lettura del “Demone meschino” di un altro celebre Fëdor della letteratura russa, Sologub).
Partirei dunque da qui, dalla riflessione di Malcovati, che condivido in pieno, specie se applicata a questo racconto: immaginiamo per un istante che a leggere quest’opera sia un giovane adolescente - qualcuno che, anche solo per ragioni squisitamente anagrafiche, si trovi sprovvisto non soltanto di una buona conoscenza della letteratura russa (come nel mio caso), ma perfino di una buona infarinatura circa il “mondo Russia”, i.e. storia, forma di governo, società, etc. Ebbene, anche il nostro giovanissimo lettore potrebbe appassionarsi a questo acquerello emotivo di Dostoevskij; la Pietroburgo che descrive - impalpabile e sognante - potrebbe tranquillamente essere la Berlino, la Milano, o la Parigi di oggi. Infatti, l’attenzione dell’autore russo si rivolge principalmente all’animo umano, una realtà trascendente che non conosce spazio né tempo: “In questi angoli [...] scorre una vita, come dire, completamente diversa, che non assomiglia a quella che ferve accanto a noi, ma è come quella che forse si svolge nello sconosciuto reame di qualche favola, e non qui, in questa nostra seria, arciseria epoca.”
Ma di cosa parla questo racconto? Parla di noi, di tutti noi che sogniamo ad occhi aperti, spesso perdendo il contatto con quanto ci circonda, semplicemente fantasticando tra noi e noi, leggendo un libro, o ancora, come è frequente al giorno d’oggi, perdendoci davanti allo schermo di uno smartphone: “Adesso egli nota a malapena la strada di cui prima ogni minimo particolare poteva colpirlo. Adesso la ‘dea della fantasia’ [...] aveva già tessuto con la sua mano capricciosa il suo aureo ordito e aveva cominciato a sviluppare dinanzi a lui gli arabeschi di una vita inaudita e fantastica, e, chissà, forse con la sua mano capricciosa l’aveva già trasportato al settimo cielo di cristallo dall’ottimo marciapiede di granito per il quale stava facendo ritorno a casa. Provate a fermarlo adesso e domandategli all’improvviso dove si trova e per quali vie sta camminando: probabilmente non ricorderebbe nulla, né dove stava andando, né dove si trova adesso e, arrossendo per la stizza, sicuramente inventerebbe qualcosa per salvare le apparenze.”
Dostoevskij si mostra consapevole tanto del fascino di queste esistenze parallele e trascendenti, quanto del pericolo che rappresentano: “E domandi a te stesso: dove sono i tuoi sogni? E scuotendo la testa esclami: come volano via in fretta gli anni! E di nuovo ti domandi: cosa ne hai fatto dei tuoi anni? Dove hai seppellito il tuo tempo migliore? Hai vissuto, oppure no?”

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