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La sfida della logica scomposta
Chi è Jean Baptiste Clamence?
1 – APPROCCIO: a sentirlo avvicinare i clienti del bar “Mexico City” di Amsterdam, sembrerebbe soltanto un logorroico. E, come tutti i logorroici particolarmente dotati di eloquio, un amante del paradosso sino alla provocazione (nello stesso tempo in cui decanta lo zelo praticato a suo tempo dai “nostri fratelli hitleriani” nel ghetto, sa anche, in quanto vi abita, che esso è il “luogo d’uno dei maggiori delitti della storia”).
2 – PRESENTAZIONE: si descrive come un uomo appagato da se stesso (“La mia natura mi piaceva, e tutti sappiamo che la felicità è questa, anche se, per tranquillizzarci a vicenda, fingiamo a volte di condannare un tale piacere col nome di egoismo”). Ma questo appagamento è sovente il presupposto necessario per potersi dedicare agli altri con successo: l’uomo “non può amare senza amarsi”. Ecco il perché della spiccata generosità di Clamence nella vita e nel mestiere, e – come in una sorta di chiusura del cerchio – del suo ritenersi uomo eccellente. Al cospetto di cotanta autopresentazione di un io narcisista, però, qualsiasi interlocutore capirebbe di assistere ad altro, ad una preparazione: in quel che di iperbolico quest’uomo dice di sé, è presumibile un “ma”...
3 – CONFESSIONE: “Sono sempre stato pieno di vanità da scoppiare”. Alla fin fine l’eccellenza è una finzione, e la dimenticanza un modo per praticarla senza stancarsi di sé. A dispetto del gusto del paradosso e della provocazione – che attiene ad una singola natura d’uomo, e dunque sopravvive con essa nonostante tutto – le cose dell’esistenza impediscono di nascondersi a ciò che si è (“procedevo così alla superficie della vita, in certo modo nelle parole e mai nella realtà”). Così che, giunti al nocciolo della questione, si è costretti ad affrontare la “reductio ad unum” del proprio sentire: “può darsi che si tratti di vergogna, o di uno di quei sentimenti ridicoli che hanno a che fare con l’onore”. Ridicolo o meno, quel sentimento sfila la maschera: il compiacimento per la propria natura non esiste più.
4 – SCONFESSIONE: il“sospetto di non essere così ammirevole” è solo il principio della consapevolezza che, prima di ingannare gli altri, ci si è autoingannati (“Dopo lunghi studi su me stesso ho scoperto la duplicità profonda della creatura”). D’altronde, perché meravigliarsene? “Per finirla con l’ambiguità, bisogna semplicemente finir di vivere”. E’ il motivo – quasi l’alibi – per cui l’avvocato Clamence inizia a “praticare” una seconda natura: indifferenza o meditato disprezzo, rivolto anzitutto a chi una volta è stato oggetto del suo desiderio di rendersi meritorio.
5 – RIEDIFICAZIONE: resta, alla base, la necessità di vedersi ancora al centro della propria esistenza. Essa, come andava bene per ricercare la propria eccellenza nel giudizio degli altri, va ancor meglio ora che ogni spinta etica è stata accantonata, e la ricerca si è concentrata soltanto su se stessi (“La depravazione è liberatrice, perché non crea obblighi. Non vi si possiede altri che se stesso, dunque è l’occupazione prediletta dei grandi amatori della propria persona”). Non rimane che seguire una “felice dissipazione”, attraverso l’alcool e, anticipato dal disgusto per l’amore, l’uso della donna (in verità, ricambiato).
6 – APPRODO: “Adesso parlo con uno scopo: evidentemente, quello di far tacere le risate, di evitare personalmente il giudizio”. Uno scopo non raggiungibile attraverso la libertà (luogo elettivo per commedianti e ipocriti), ma con il suo contrario, la sottomissione. E’ necessario “incolpare se stessi per poter giudicare gli altri”: “più mi accuso e più ho il diritto di giudicare”, perché “il ritratto che mostro ai miei contemporanei diventa uno specchio”. Così “troneggio tra i miei angeli cattivi”. L’abisso infernale, come Dante insegna, può essere un luogo ghiacciato.
Il giudizio (che si dà e si riceve, sostanziando il “mestiere” del protagonista: giudice-penitente).
La risata (l’elemento irrisolto che, diluito nella dimenticanza di giorni o di anni, può tornare in qualsiasi luogo e momento, e frantumare un’identità – come insegna Dino Buzzati nei suoi migliori racconti).
Sono i due fattori attorno ai quali Albert Camus traccia – in sei mosse/capitoli – la parabola umana.
Una parabola asimmetrica, che termina in un’infinita “caduta”... qualcosa che non appare come un inabissarsi tangibile (né del protagonista, né della ragazza che, alle sue spalle, finisce nella Senna), ma ricorda piuttosto un volo archetipico (e inevitabile) verso le profondità: Clamence, come Lucifero, è estasiato dalla propria eccellenza; a Clamence, come a Lucifero, viene rivelato il proprio stato di colpevolezza; Clamence precipita dal regno di Dio (“Non era forse questo l’Eden: la vita in presa diretta? Così fu la mia”), rifugiandosi infine nell’unica cosa che glielo ricordi (“Non è forse la donna tutto quello che ci rimane del paradiso terrestre?”).
Lucifero, che volle sfidare Dio e, macchiandosi di superbia, fu precipitato nelle profondità infernali. O forse – secondo una tesi meno accreditata ma ugualmente affascinante – Lucifero, che, di fronte alla richiesta divina di qualcuno che impersonasse la colpa come elemento tra gli elementi, acconsentì ad assumerla su di sé, mentre ogni altro angelo taceva. Gesto di coraggio che è in realtà furbizia, aggiunge Clamence, avendo intimamente chiaro che nessuno è escluso dalla colpa, nemmeno quel figlio di Dio attraverso cui si potrà rinfacciarla (e respingerla) al Padre.
… “vorremmo nello stesso tempo non essere più colpevoli e non fare lo sforzo di purificarci. Non abbastanza cinismo e non abbastanza virtù. Non abbiamo energia né per il male né per il bene. Lei conosce Dante? Sul serio? Caspita! Dunque sa che Dante ammette l’esistenza di angeli neutri nella lotta fra Dio e Satana. E li colloca nel Limbo, una specie di vestibolo del suo inferno. Noi siamo nel vestibolo, amico mio.”
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Commenti
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Il libro fa sicuramente discutere - come dite voi, Daniele e Giulio - e può dare adito a interpretazioni anche molto diverse tra loro, in quanto - come ricordava Valerio, se non sbaglio - dentro c'è tanto e forse anche troppo. A mio parere la chiave è nell'interpretazione di una frase in particolare,che in molti avevano già individuato nelle loro recensioni: "Fanciulla, gettati di nuovo in acqua perché io abbia la possibilità di salvarci entrambi". Non l'ho citata nella recensione perché, nella mia visione di questo racconto, è la chiave per interpretare il resto.
A Laura: per quanto riguarda la tua sottile osservazione (non mi meraviglierei se tu avessi anche capito che lavoro faccio :) ), credo di non essermi addentrato nell'aspetto giuridico del racconto perchè non mi ritrovo nella concezione di giustizia che esprime... o forse perchè, in verità, a Camus non interessa davvero parlare di giustizia, ma solo di giudici (penitenti in carne e ossa o integri di cui alla pala del polittico rubato). Ma forse tu hai colto aspetti che io non ho visto...
Beh in quanto alla tua professione, vuoi ridere? Ti immagino giudice o forse meglio, magistrato.
Ti unisci alla nuova lettura di gruppo? Bolano, Stella distante?
Grazie per l'invito, ma non partecipo alla lettura di Bolano (stavolta nemmeno con i miei tempi, perché non mi piacerebbe fare un'altra recensione "ritardata"); prometto però di emendare con la lettura di marzo!
Mi ha fatto sorridere che le donne abbiano scelto Bolano e gli uomini McCarthy (ovviamente, io avrei confermato la regola, anche perché McCarthy mi piace molto)... chissà che non sia proprio questa la lettura di marzo ;)
Buona serata.
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