Dettagli Recensione
Diagnosi di una domanda
‘E se Camus avesse voluto lasciarci indifferenti alla conclusione di questo racconto?’
La domanda mi è venuta spontanea mentre mi interrogavo sulle ragioni per cui non ho trovato entusiasmante nè sorprendente la lettura de “Lo Straniero” di un maestro del filone esistenziale come Camus al punto di guadagnarsi il Nobel per la letteratura nel 1957. Un interrogativo buttato lì un po’ come battuta ha preso forza in breve tempo fino a rendersi il passe-partout per la comprensione di questo libro. Almeno per quanto mi riguarda.
In fondo per Mersault, e forse per lo stesso Camus, siamo tutti estranei. Per questo mondo. Ne deriva da questo sillogismo che nessuno è autoctono. Ma tutti sono stranieri o prigionieri, a seconda dei punti di vista. E il confine tra le due parole però è labile, evanescente e non solo perché entrambi arrecano con sé un’accezione etimologica negativa della loro parola (la desinenza infatti è la medesima), ma perché nella sua vita il nostro enigmatico protagonista sperimenta entrambe le situazioni per arrivare a dire che poco cambia se alla fine “tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta”.
Non importa se in carcere o fuori, alla fine straniero rimani. E allora dal momento che quella situazione di alienazione è impossibile da superare, è più importante riflettere non sulla vita, ma su se stessi. È più importante avere convinzioni che oggetti. È più importante essere “sicuro di tutto, sicuro della mia vita e della morte che mi aspetta” che sperare di morire in un luogo piuttosto che in un altro. E non importa se l’ingiustizia é stata decisiva nel deviare il corso normale della tua esistenza. Perchè “un giorno anche gli altri sarebbero stati condannati”. Insomma l’apatia morale ed esistenziale, nel vero senso della parola, di Mersault è proprio ciò che lo salva dalla disperazione, dalla abnegazione, dalla tristezza.
È proprio quell’essersi ritrovato senza bussola ed essersi convinto che sarebbe stato inutile costruirne una, in un mondo a cui si sente estraneo, che gli permette di poter affrontare ogni avversità con indifferenza, la quale -in quel dato momento in cui ognuno di noi avrebbe stracciato vesti, strappato capelli, usurato le corde vocali per urlare la propria estraneità ai fatti- diventa il moto interiore che lo fa apparire forte dinanzi a uno scorrere degli eventi sempre più catastrofico e drammatico. In fondo, come fa a rivendicare la propria estraneità a degli eventi successi nella sua vita quando, per lui, è la vita stessa ad essere estranea? È assurdo. E allora diventa assurda anche la nostra posizione -a me personalmente non è capitato ma ad altri, più comprensibilmente, sì- dove pretendiamo che il signor Mersault si faccia valere.
Non so come giudicare questo libro, eppure credo di aver intercettato il messaggio che vuole lasciarci. E ho provato a raccontarvelo. Ma è un messaggio davvero così originale e dirompente? E la storia è davvero così intrigante? Me lo chiedo. E ve lo chiedo. Torno alla prima domanda perché io sono rimasto indifferente alla lettura di questo libro sospeso in un limbo tra approvazione o rifiuto perché ‘qualcosa di già visto, già conosciuto’.
Se non altro ha avuto il merito di pormi ancora una volta un interrogativo che considero dirimente per darmi poi una risposta, rafforzandola, che considero decisiva: ha senso allora vivere la propria esistenza (che sia unica o sia terrena è a vostra discrezione) con questo distacco interiore così forte da poter sopportare ogni avversità, ma allo stesso tempo da non poter provare le emozioni più belle (e anche più brutte) con cui potresti venire a conoscenza? Perché in fondo potrebbe capitare anche a noi di trovarci in un buco nero in cui la via d’uscita non sembra esserci. E, sono certo, che se mi capiterà invidierò la certezza nichilista di cui Mersault si nutre per farvi fronte.
Eppure, e qui vengo alla mia risposta, sono convinto che non è giusto privarci dell’allegria sfrenata, della soddisfazione contagiosa, dell’amore multiforme. Non è neanche giusto privarci della sofferenza, del dolore e della fatica perché è grazie a queste emozioni e sentimenti che nasce il nostro miglioramento come uomo e come donna. Nasce il progresso come individui. E allora se, dopo tutto questo, ti ritrovi al buio e non puoi accendere la luce saranno quei ricordi, quelle piccole vittorie sul dolore, quei grandi riscatti sulla sofferenza e disperazione a illuminare la tua mente e il tuo luogo. E non certo l’apatia per la vita. Perché sennò è un ‘vincere’ senza gusto, è un ‘vincere’ senza guadagno.
E allora sì che è assurdo.
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Commenti
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Grazie infatti per questa tua segnalazione circa il libro di Daoud: andrò a leggerlo sicuramente!!
Buona giornata,
David
Buona settimana, David!
Tuttavia che sia vittima o sia vincitore dipende dalle lenti utilizzate.
Rimanere così indifferenti di fronte a una sorte che sembra drammatica a un che di ammirevole. E qualcuno potrebbe addirittura dire: “lui ha vinto”
Un altro potrebbe trovarlo invece irritante.
Questo tipo di analisi porta la critica e i lettori a spaccarsi in fazioni e tribune contrapposte, io invece -come si evince dalla mia recensione- mi sono accostato a una diversa interpretazione.
Entrambe sono legittime quadro diverse tra loro.
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Ti segnalo un libro uscito qualche anno fa, che ha vinto il Goncourt opera prima. E' di Daoud e s'intitola appunto "Il caso Mersault" : è la risposta di un arabo (qual è l'autore) al libro di Camus . L'ho trovato parecchio interessante.