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L’ambiguità e l’inafferrabilità del reale
Molti critici hanno osservato che il "Giulio Cesare" è una tragedia senza protagonista: Cesare muore all’inizio del terzo atto, pronuncia meno del sei per cento delle parole del dramma ed è presente in scena per poco più di un decimo della durata dell’azione. Più che la figura di Cesare, al centro del dramma ci sono la morte di Cesare, non come protagonista della vicenda, ma in quanto sovrano che va eliminato prima che diventi un tiranno, e il sangue di Cesare, anche se, per ironia della sorte, egli si dimostrerà più pericoloso da morto che da vivo. A Filippi, davanti ai corpi degli amici Cassio e Titinio, morti suicidi perché erroneamente convinti della disfatta, Bruto esclama: «O Giulio Cesare, sei ancora potente!/Il tuo spirito cammina, e pianta le nostre spade/Nelle nostre stesse viscere». I veri protagonisti dell’opera sono i suoi uccisori e i loro avversari, due schieramenti che incarnano quindi la contrapposizione tra regime repubblicano e regime monarchico.
Eppure nessuno di loro è un eroe. Lungi dall’evidenziarne le qualità eccezionali, Shakespeare ne sottolinea invece gli aspetti umani, a cominciare dal personaggio di Cesare, che, come scrive Agostino Lombardo, è oggetto di una vera e propria demitizzazione e diventa un uomo che quasi annega nel Tevere, grida come una ragazzina quando è in preda alla febbre e sviene tra la folla per il mal caduco, un uomo che è sordo dall’orecchio sinistro, è preda delle superstizioni, si lascia spaventare da segni e presagi, ama essere adulato e definisce «un pazzo» o «un sognatore» chi tenta di avvertirlo del pericolo.
Tale processo di demitizzazione non coinvolge soltanto Cesare, ma tutti i personaggi, presentati non come statue, ma come uomini, e in quanto tali essi svelano una vasta gamma di sentimenti, debolezze, paure, preoccupazioni. Commettono errori, bramano l’oro e il potere, sono deboli e irresoluti, hanno incubi, paure, allucinazioni.
Perfino Bruto compie, tra gli altri, due errori fondamentali. Il primo consiste nel lasciar vivere Antonio, nonostante il parere contrario di Cassio, che è la mente e l’anima della congiura, il primo a mostrare tutta la durezza della politica e che una rivoluzione, anche se nobile, libera inevitabilmente gli istinti più oscuri. Poi, subito dopo l’uccisione di Cesare, Bruto acconsente alla richiesta di Antonio di parlare al funerale, ancora una volta non ascoltando Cassio, che lo mette in guardia a ragione sul rischio che lo scaltro Antonio rappresenta per tutti loro.
Scopo del "Giulio Cesare" è mostrare l’umanità dei personaggi, offrire un’immagine della fragilità umana, della mutevolezza del mondo, della relatività del reale. Se non ci sono eroi, è perché non esistono certezze né valori assoluti. Tutto cambia, si trasforma e si muove incessantemente. I miti non sono statue di pietra, ma sono fatti di carne e sangue: nascono, crescono, muoiono e sono sostituiti da altri miti che a loro volta, un domani, tramonteranno. La realtà, scrive Lombardo, è inafferrabile, sfuggente, osservabile da mille punti di vista come un’opera manieristica, oggetto di mille interpretazioni. La ricorrente immagine del fuoco e della Terra che «si muove come una cosa malferma», i congiurati che non riescono a trovare i punti cardinali, la morte del poeta Cinna scambiato per l’omonimo congiurato e brutalmente ucciso dalla plebe impazzita al funerale di Cesare, la stessa volubilità della folla, quella «marmaglia» la cui natura «vile» e volubile viene sottolineata fin dalla prima scena del dramma, sono dimostrazioni emblematiche dell’instabilità e della mutevolezza del reale. Durante la battaglia di Filippi, poi, si moltiplicano i fraintendimenti con conseguenze talvolta disastrose.
Secondo Giorgio Melchiori, Shakespeare racconta un episodio della storia romana, ma al tempo stesso porta sulla scena alcuni nodi cruciali della condizione contemporanea. La Roma del "Giulio Cesare" è specchio dell’Inghilterra subito prima della morte di Elisabetta. I protagonisti, proprio come l’uomo sulle soglie dell’età moderna, si scontrano con un mondo oscuro, sfuggente, problematico, incoerente. Un mondo che l’uomo del Rinascimento deve affrontare con le proprie forze, tentando di dargli un significato senza potersi appoggiare alle certezze dell’universo medievale. Il personaggio di Bruto è una delle maggiori incarnazioni della crisi elisabettiana: se da un lato è rivolto al passato, alla tradizione, all’autorità, come dimostra il suo attaccamento per Cesare, dall’altro è proiettato verso il futuro, con il suo desiderio di libertà e il suo rifiuto del potere assolutistico. La sua esitazione, come quella di Amleto, non nasce dalla viltà, ma dal dibattito interiore dell’uomo moderno, diventato responsabile del proprio destino. Bruto è un intellettuale, definito dai critici il primo vero intellettuale che si incontra nel corpus shakespeariano, un uomo schivo, più bravo a leggere il proprio animo che di quello altrui (e la sua incapacità di comprendere e indirizzare l’umore della folla lo dimostra), consapevole della nuova, difficile realtà che si presenta all’uomo quando l’ordine tradizionale scompare, così come scompare Cesare, e impegnato nello sforzo di decifrarla e chiarirla tanto a se stesso quanto agli altri anche per mezzo del teatro, esaltato attraverso le sue parole e quelle di Cassio subito dopo l’uccisione di Cesare. E ciò che più di ogni altra cosa rende Bruto così emblematico della modernità a cui appartiene è che gli elementi in conflitto dentro di lui non trovano una ricomposizione armonica: il dubbio di Bruto, non si risolve o si risolve solo in superficie.
Il "Giulio Cesare", redatto da Shakespeare mentre compone l’"Enrico V", ha una posizione chiave nella produzione shakespeariana: da un lato sviluppa e conclude il tema della legittimità della deposizione e dell’uccisione di un sovrano, filo conduttore del precedente ciclo di opere (da "Riccardo II" a "Enrico V") dedicate alla storia inglese, dall’altro prepara la grande stagione tragica aperta dall’"Amleto", che riprende questo tema per esplorarlo ad un livello più profondo. Già le "Vite" di Plutarco (fonte principale del "Giulio Cesare") affrontano il problema dell’uccisione del sovrano e delle sue conseguenze da diversi punti di vista: se da un lato il tirannicidio è giustificato, dall’altro né Cassio né Bruto si salvano da quello che Enrico IV morente definisce “il fango” dell’impresa. Il motivo della sconfitta dei cesaricidi sta qui, ma il riscatto sta nella forma della loro morte, il suicidio, considerato un atto di romana fermezza e nobiltà. In età elisabettiana, infatti, l’aggettivo “romano” si associa alla nobiltà d’animo, ma anche al suicidio, la più elevata espressione di tale nobiltà. È chiara ancora una volta l’importanza del "Giulio Cesare" per l’"Amleto": i dubbi e le esitazioni del principe danese culminano nel più celebre dei suoi soliloqui, una meditazione sul suicidio che diventa il nucleo delle sue interrogazioni senza risposta.
Secondo la leggenda, in fondo, gli inglesi discendono da un pronipote di Enea, Bruto. Gli elisabettiani, quindi, avvertono uno stretto legame con il mondo romano: romani e britanni discendono dalla stessa stirpe e condividono gli stessi alti ideali di onore, nobiltà, risolutezza, lealtà, coraggio. Se per gli spettatori del Cinquecento l’antica Roma è una sorta di controparte ideale del loro mondo, i drammi classici sono una vera e propria storicizzazione del presente. Nelle opere romane di Shakespeare la riflessione sulla storia si proietta nella dimensione della Roma antica, liberandosi dai vincoli politici imposti dalla rappresentazione di episodi della storia nazionale recente, e affronta temi che il drammaturgo non avrebbe potuto trattare apertamente nei drammi di storia inglese senza incorrere nella censura.
Attraverso episodi e personaggi della storia romana, Shakespeare riflette sulla natura e sul comportamento umano. Nei discorsi di Bruto l’uccisione di Cesare è presentata sia come un atto necessario e preventivo, finalizzato ad evitare che in futuro egli si lasci trascinare dall’ambizione e diventi un tiranno, sia come un sacrificio, un dono agli dei, eppure Bruto sembra non rendersi conto del fatto che il loro sarà un sacrificio umano, un’azione terribile che contrasta con il proposito da lui espresso di essere «sacrificatori», non «macellai». Il personaggio di Bruto si mostra così perfettamente in accordo con l’intera opera: la stessa forma del Giulio Cesare è una costruzione solo apparentemente solida, lineare, perfetta, insomma, “romana”. Appena sotto questa superficie fremono le spinte che la disgregheranno.
Nell’"Amleto" la domanda di Bruto, solo davanti al problema dell’uccisione di Cesare, è posta al centro del dramma e ad essa cercano di rispondere le tragedie successive, conducendo una riflessione a tutto tondo sulla condizione umana e tentando di costruire un mondo adatto ad accogliere l’uomo moderno. Tale tentativo ha inizio proprio con il "Giulio Cesare", che apre così la massima stagione dell’arte di Shakespeare.
Le citazioni sono tratte da:
W. SHAKESPEARE, Giulio Cesare, a cura di A. LOMBARDO, Feltrinelli, Milano, 2014.
Testi di riferimento:
A. LOMBARDO, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma, 2005; S. MANFERLOTTI, Rosso elisabettiano. Saggi su Shakespeare, Liguori, Napoli, 2017; S. MANFERLOTTI, Shakespeare, Salerno Editrice, Roma, 2010; G. MELCHIORI, Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Laterza, Roma, 2005.
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