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Mite agnello di Dio
Recensioni in una cartella
Racconto lungo, tra gli ultimi scritti da Dostoevskij, “La mite” si sviluppa a partire da un’intuizione scenica brillante, quella di un uomo che, ai piedi della moglie appena suicidatasi come una martire con una reliquia in mano, ricapitola e riflette sui passi che la hanno condotta a quella fine. Un uomo permaloso, cinico, egoista, una ragazza sposata per un motivo sfuggente e una fine che minacciosa già sembrava gravare su una coppia fragilissima. Non c’è amore in questa storia, ma il dramma di una relazione che li ha imprigionati, estenuati, contraffatti. Storia come tante, epilogo, purtroppo come tante altre. Dostoevskij fa parlare il marito in un lungo soliloquio, fatto di crescendi e fughe, balbettî, prosopopea e contraddizioni, a voler rappresentare una realtà di oggettività impossibile perché filtrata, distorta, da un uomo che ricostruisce la storia inseguendo continuamente un punto irraggiungibile. Ecco, per fare il punto l’uomo parla e per fare il punto Dostoevskij scrive: da un caso di cronaca che lo ha colpito, sviscera una storia personalissima di rancori e rimorsi, di sguardi e gesti violenti, ma anche l’epopea muta dello spirito santo, l’epifania di qualche Dio che è tutto dentro l’uomo e che fallisce la sua agnizione. Il problema questa volta è il modo con cui Dostoevskij scrive: concettoso, verboso, asfissiante, adeguato al personaggio, certo, ma incapace di reggere una narrazione che, per quanto non lunga, non ha altri eventi e voci al di fuori di quella del protagonista. Ne segue un testo fragile stilisticamente, che si contorce e allunga in modo non necessario e che alla fine raccoglie poca legna e tanta, troppa cenere. D’altra parte, nell’infinito macrocosmo dei suoi grandiosi romanzi, quella della “mite” è una storia già scritta. Questa è solo un’appendice.
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