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Le onde si ruppero a riva
In questo libro, quello che Virginia Woolf ha scritto nel suo stile più proprio e personale, forma e contenuto trapassano continuamente l’uno nell’altro, anzi, il problema primo e ultimo è rendere sulla carta lo scorrere del tempo. E se il tempo è durata, esso è allora anche ritmo: così la narrazione dissolve i confini dello spazio e articola una sinfonia di commovente eleganza in cui sei voci, o meglio, sei silenzi, si alternano e rispondono nel corso di una vita, sei personaggi che piano piano si stagliano nitidi con i loro tormenti e le loro radici: le donne con le brocche sul Nilo di Louis, la terra umida di Rhoda, la terra rigogliosa, domestica, di Susanne, l’ordine misurato di Neville, il fuoco scintillante di Jinny e il gusto per le storie, per i racconti, di Bernard. A legarli il desiderio prima, la nostalgia poi, di Percival, presenza muta, sogno, ideale, estasi di giovinezza. Ma parallelamente a questo tempo umanissimo che dalla nascita si continua alla vecchiaia, c’è un altro tempo, quello maestoso e ineluttabile della natura, le onde che si infrangono a riva e trascinano con sé qualche brandello di felicità e qualche lacrima di pianto. Si apre con il rosa dell’alba e si chiude col nero della notte "Le onde", perché parlare del tempo è parlare della vita e quindi, soprattutto, della morte.
Ora, una narrazione tanto originale ha oltrepassato i confini del flusso di coscienza: queste sei voci sono esse stesse coscienze, corpi di pura percezione, o forse forme diverse di una stessa anima che convivono in una persona: il libro è cieco perché lo sguardo è tutto interiore, così come le riflessioni-preghiere dei personaggi. Il problema, se vogliamo, è paradossale: un romanzo come questo, fatto di scrittura altissima e cristallina, perpetuamente tesa sul filo di un esacerbato lirismo, si assesta su un tono “medio” del tutto barocco. Ne segue che nei momenti di tensione, negli snodi cruciali, la scrittura, per rendere il momento, deve oltrepassare se stessa, ma non può oltrepassare quello che già è perfetto senza negare se stessa e quindi finisce forse per soffrire di una certa monotonia. Una monotonia di cui penso Virginia Woolf fosse consapevole e che il lettore deve imparare a gestire, diluendo la lettura, soffermandosi con calma e pazienza, interrompendo se necessario.
Rispetto a Clarice Lispector, come mi è capitato di scrivere qualche giorno fa, la scrittura non è primordiale, selvaggia o sfavillante, no, piuttosto è molto meditata, digerita, rimuginata e proprio per questo nonostante si muova per rarefazione ed espansione di confini, per movimento perennemente centrifugo, resta sempre un fondo opaco e scuro, un cielo smaltato e indifferente: così le pagine si animano di falene, e non farfalle, di bagliori violacei e di vuoti siderali. E poiché la scrittura in Virginia Woolf è sempre, almeno in parte, autobiografica, temo non sia un caso che il personaggio più acquatico del libro, Rhoda, ninfa umida, si suicidi (non è uno spoiler, perché non c’è trama alcuna), come farà la Woolf, annegandosi, ovviamente, in un fiume. Esito estremo di una scrittrice di meravigliosa intensità che proprio nelle ultime pagine del libro scopre, credo, l’approdo a un nuovo stile, solo presagito certo, che forse l’avrebbe portata a ben altre forme di scrittura.
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