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"I would prefer not to"
Terzogenito di Allan e Maria Gansevoort Melville, Herman nacque alle 23.30 del primo agosto del 1819 al numero 6 di Pearl Street in quel di New York. Sin da subito si dimostrò un ottimo oratore e un discreto studente seppur di poi costretto, insieme al fratello, ad interrompere prematuramente gli studi a causa della morte del padre e ad antecedenti problemi finanziari.
Tra i tanti scritti a sua firma Bartleby è definito il racconto perfetto grazie allo stile e alla dovizia con cui è redatto. Melville non ha mai gradito tale lode basata su una perfezione meramente formale, in quanto portavoce dell’idea che la letteratura più che alla forma deve ergersi a portatrice di verità (non autobiografica quanto del dogma «the great Art of Telling the Truth»), una verità che «se raccontata senza compromessi… avrà sempre contorni imperfetti».
Da questi brevi assunti comincia l’avventura con “Bartleby lo scrivano” e le prime domande che sovvengono alla mente sono: ma qual è questa assoluta verità che egli vuol trasmetterci? Qual è il suo messaggio, la sua morale? Cosa fa della sua figura un personaggio così indimenticabile? Perché il suo è un diniego continuo? Sin dove lo condurrà questo leit-motiv del “Preferirei di no”? Qual è quella peculiarità che lo rende un libro fondamentalmente triste seppur così veritiero? Tante possono essere le interpretazioni di quelle che poi saranno le conseguenze inevitabili di questo suo negarsi, tuttavia, forse, la verità di Melville non risiede tanto nella credibilità o meno di questo personaggio che ci viene descritto e narrato dall’avvocato a cui è alle dipendenze, quanto da quella imprescindibile constatazione della sua verità a differenza di quella mancante altrui. Le vicende si snodano infatti su un palcoscenico composto da molteplici personalità: il legale, che ricopre un ruolo secondario seppur voce narrante, Tacchino, un inglese basso e corpulento sulla sessantina dal comportamento postprandiale e dalle mutevoli espressioni facciali, Pince-nez, un giovane di circa venticinque anni, col viso smorto ornato da un paio di favoriti, di aspetto alquanto pittoresco e vittima dell’ambizione e della cattiva digestione («Pince-nez non sapeva ciò che voleva. O, se voleva qualcosa, era di liberarsi una volta per tutte del tavolo di scrivano»), e infine, Zenzero, un dodicenne che più che studiar legge altro non è che il “fattorino scopatore”. In tutto questo Bartleby, un uomo sbiadito nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, disperato nella sua solitudine, si erge con il suo mistero e afferma con costanza e dovizia il suo “I would prefer not to” perché a differenza di tutti gli altri che non esitano a dir di sì mentendo, lui dichiara la verità assoluta, non teme di urlare al mondo il suo dissenso («Perché tutti quelli che dicono sì, mentiscono; e tutti quelli che dicono no – beh essi sono nella felice condizione dei giudiziosi viaggiatori in Europa che non si portano dietro impicci; attraversano le frontiere dell’Eternità senza nient’altro che una semplice borsa – vale a dire l’Io. Mentre questi signori del sì, questi viaggiano con mucchi di bagagli e, un accidenti se li pigli, non riusciranno mai a passare la dogana»).
A questo primo racconto si aggiungono “Il paradiso degli scapoli” e “Il tartaro e la fanciulla”. Entrambe i testi, benché meno conosciuti in Italia, sono molto vicini al Bartleby, in particolare per la profonda ironia e per l’atteggiamento critico riservato al sistema capitalistico e all’alienazione che il medesimo produce. Nello specifico ne “Il paradiso degli scapoli” l’io narrante è spettatore privilegiato nel Paradiso di uomini soli, un luogo ove la correlazione è data dalle figure degli avvocati americani (vedi il legale del Bartleby con grande riferimento alla persona di John Jacob Astor) rispetto a quelli oltreoceano. Il linguaggio è leggero e fluido ma anche curato ed erudito. All’interno del “Tartaro delle fanciulle” assistiamo alla correlazione tra processo produttivo e riproduttivo per mezzo della figura di Cupido, personaggio coinvolto nel commercio delle sementi che, una volta concluse le transazioni d’affari, visita la fabbrica le cui acque sono azionate dal Fiume di Sangue. Qui l’osservazione perspicace dello scrittore si sposta sulle condizioni malsane di lavoro delle operaie. Queste ultime appaiono invecchiate prima del tempo già dopo pochissime settimane di impiego e sono quindi destinate a morte precoce e all’impossibilità di, seppur coniugate, riprodursi. Il tutto attraverso uno stile narrativo diametralmente opposto e dunque denso, corposo, cupo.
Tre racconti di grande intensità e riflessione sono “Bartleby lo scrivano”, ““Il paradiso degli scapoli” e “Il tartaro e la fanciulla”, tre opere caratterizzate da una penna ricca e articolata ma anche da contenuti forti e atti a suscitare considerazioni e riflessioni ancora oggi ampiamente attuali che muovono le loro basi da problematiche quali il capitalismo, il lavoro, la condizione femminile. Una piacevolissima scoperta.
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