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UN'ODISSEA MISERABILE E GROTTESCA
Alla fine degli anni ’20 William Faulkner lavorò, per poter guadagnarsi da vivere, come fuochista in una centrale elettrica, scrivendo – si racconta – nelle ore notturne con una carriola rovesciata a mo’ di tavolino. In quei sonnambolici mesi vennero alla luce opere imprescindibili per la letteratura del Novecento, come “L’urlo e il furore” e “Mentre morivo”. Rispetto al suo primo capolavoro, che ancora oggi stupisce per l’uso spregiudicato e innovativo del linguaggio (uno stream of consciousness per certi versi ancora più ardito di quello di Joyce), “Mentre morivo” risulta da una parte più accessibile sotto il profilo cronologico (dal momento che la storia si sviluppa in maniera abbastanza lineare in un breve lasso di tempo), mentre dall’altra la struttura polifonica viene ampliata e portata fino agli esiti più estremi (sono ben quindici infatti le voci narranti che si passano il testimone per raccontare il grottesco viaggio che i sei membri della famiglia Bundren intraprendono per trasportare la salma della moglie e madre appena defunta fino alla lontana cittadina natale dove, quando era in vita, aveva chiesto di essere seppellita). Va detto per correttezza che, nonostante la brevità del romanzo, la lettura, trattandosi di un’opera di Faulkner, non è affatto facile e rilassante, ma la fatica sostenuta per portare a termine il libro viene alla fine ricompensata con pagine di sublime letteratura, tra le più belle che mi sia mai capitato di leggere. Faulkner possiede una rara e virtuosistica capacità, quella di saper variare i registri stilistici, adattandoli alla perfezione a ciascun personaggio. Ogni monologo ha un suo stile peculiare: quelli di Darl, il fratello “strano” (che alla fine verrà non a caso fatto rinchiudere dai suoi stessi familiari in un manicomio per aver cercato di dar fuoco alla bara della madre), sono lirici e pieni di arzigogolati sillogismi (del resto Darl, avendo combattuto nella Grande Guerra e quindi conosciuto un po’ il mondo, è l’unico ad essersi parzialmente emancipato dalla gretta ignoranza contadina degli altri membri della famiglia Bundren), quelli di Dewey Dell (l’unica femmina della casa, che porta in grembo un vergognoso segreto di cui vuole a tutti i costi disfarsi durante il viaggio) sono invece istintivi e prosaici, così come quelli del piccolo Vardaman sono infantilmente sconnessi (come quando si ostina a sostenere che “mia madre è un pesce”), e così via. C’è poi la folla di vicini, medici, locandieri e negozianti che osservano da distante la vicenda e che funzionano un po’ come il coro di una tragedia greca. Della tragedia “Mentre morivo” ha molte caratteristiche, anche se deformate da una sottile, quasi impercettibile, vena cialtronesca. Il viaggio dei Bundren (una famiglia che oggi si definirebbe disfunzionale, percorsa com'è da molteplici tensioni irrisolte e conflitti latenti), con un carro sgangherato trainato da una pariglia di muli macilenti, deve infatti affrontare, come in una moderna Odissea, un crescendo impressionante di avversità: l'alluvione che mette fuori uso tutti i ponti della zona e li costringe a un guado azzardato e pericoloso, la morte degli animali, la gamba rotta di Cash, con il cadavere in putrefazione della donna che, giorno dopo giorno, emana un fetore sempre più insopportabile. Nonostante ciò, con stolida e irragionevole ostinazione, l'assurdo pellegrinaggio per le strade del Mississippi continua a tutti i costi, tra le atroci sofferenze del povero Cash (a cui tra l'altro viene applicata un'improvvisata e ben poco ortopedica ingessatura di cemento), il sacrificio dell'amato cavallo da parte di Jewel e la diffidenza della gente incontrata lungo il cammino, fino a quando il voto dell'inumazione non viene finalmente adempiuto. La storia si dipana e prende forma all'interno di una caotica successione di pensieri, impressioni e ricordi che si affacciano spontanei e incontrollati nella mente di ciascun narratore. Spetta al lettore fare pazientemente ordine in questo coacervo apparentemente incoerente e disorganico per dipanare il filo labile, sempre sul punto di spezzarsi, di una trama la quale, pur rimanendo costantemente dentro alle psicologie dei personaggi, sa restituire anche una impareggiabile rappresentazione del Deep South, arretrato, povero, ignorante e bigotto. La scrittura di Faulkner è complessa, criptica e reticente (quanti segreti allignano all'interno della famiglia, tra la paternità illegittima di Jewel e la gravidanza di Dewey Dell!), ma è nondimeno capace di dar vita a indimenticabili ritratti umani, icastici come se fossero scolpiti nel legno, come quelli di Cash (uomo completamente dedito al lavoro, come quando costruisce meticolosamente la bara proprio davanti agli occhi della madre agonizzante, eppure dotato di una insospettabile sensibilità che si esprime nel suo desiderio di possedere un grammofono), di Jewel (dall'espressione perennemente torva e malmostosa, che si scioglie soltanto nel rapporto quasi amoroso con il suo puledro selvaggio) e soprattutto di Anse, il patriarca (che ama farsi compatire e crogiolarsi nel vittimismo - “s'è mai visto uno più scalognato?” è la sua ricorrente lamentela -, non guarda mai nessuno dritto negli occhi, ma alla fine è l'unico, beffardamente, a tornare a casa arricchito, con una nuova dentiera e addirittura una nuova moglie). A proposito di occhi, mi piace sottolineare l'importanza che gli sguardi assumono all'interno del romanzo e la perizia con cui Faulkner descrive metaforicamente gli occhi dei personaggi (“gli occhi come due candele quando le guardi sciogliersi nello scodellino di un candeliere di ferro” di Addie, “gli occhi pallidi come legno piantati nel viso legnoso” o che “sembrano dei pezzettini di un piatto rotto” di Jewel, “gli occhi addosso come due cani da caccia nello spiazzo davanti a un fienile che non conoscono” di Anse, per fare solo alcuni esempi). Del resto le metafore e le analogie col mondo naturale abbondano in “Mentre morivo” (Anse tiene il corpo chino “come quando il mazzuolo ha appena colpito il vitello, e non è più vivo e ancora non sa di essere morto”, mentre Dewey Dell si sente “come un seme umido e selvaggio nella calda terra cieca”), così come le simbologie nascoste (“la madre di Jewel è un cavallo” dice Darl, alludendo alla circostanza che il fratello è il frutto di una passionale esperienza adulterina). E' probabile che, come nell'”Ulisse” di Joyce, ci siano moltissime altre cose non percepibili a una prima lettura (del resto Faulkner è uno scrittore straordinariamente erudito, come si può evincere – limitandoci ai titoli delle sue opere – dalle citazioni tratte da Shakespeare de “L'urlo e il furore”, da Omero di “Mentre morivo” e dall'Antico Testamento di “Assalonne, Assalonne!”). E' una caratteristica dei grandi capolavori quella di possedere una ricchezza semantica che va molto al di là della mera “fabula”, e “Mentre morivo” è entrato con pieno diritto in questa categoria, assurgendo nel tempo a riferimento ineludibile per tutti coloro che da allora si sono cimentati (il caso più recente è quello di Jesmyn Ward, l'autrice della “Trilogia di Bois Sauvage”, la quale non ha mai nascosto di aver trovato in Faulkner una delle sue principali fonti di ispirazione) con il ritratto di quella enigmatica terra di mais e di cotone, di decadenza e di razzismo, di ambiguo fascino e di mistero, di magia e di ancestrali superstizioni, di uragani e di torride estati, che è il profondo Sud degli Stati Uniti.
Indicazioni utili
"Salvare le ossa" di Jesmyn Ward
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