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Una pietra miliare nella letteratura del Novecento
Con la “Recherche” proustiana, l’”Ulisse” di Joyce e “L’uomo senza qualità” di Musil , ritengo, ovviamente a mio giudizio, che “La montagna incantata” di Thomas Mann sia uno dei capolavori letterari della prima metà del Novecento, un’opera che, sia pure giudicata “ermetica”dal suo autore (in una conferenza agli studenti dell’Università di Princeton, 1939, riportata integralmente in appendice), cioè oscura, incomprensibile ad una prima lettura, rappresenta, come afferma il traduttore e germanista insigne Ervino Pocar, un ritratto grandioso e insuperabile della civiltà occidentale dei primi decenni del secolo scorso, una fusione mirabile tra prosa e poesia. Mann stesso, meravigliandosi del successo del romanzo, non era forse pienamente cosciente della grandezza dell’opera, consigliando (sempre nella sopracitata conferenza) a chi, nonostante le difficoltà incontrate in una prima lettura, fosse arrivato in fondo, di rileggere il tutto una seconda volta: solo allora certe asperità si sarebbero appianate, personaggi e situazioni avrebbero rivelato tutta la loro poetica grandezza. Il romanzo, concepito tra il 1912 e il 1924, narra, come è noto, le vicende di un giovane ingegnere di Amburgo, Hans Castorp, che si reca a visitare il cugino Joachim ricoverato nel sanatorio Berghof di Davos, cantone svizzero dei Grigioni; un soggiorno di poche settimane si tramuterà, per la scoperta di un focolaio polmonare, in un soggiorno di sette anni, durante i quali il giovane Hans vivrà situazioni e incontrerà personaggi che segneranno per sempre il suo carattere e la sua vita. Mann conosceva bene il nosocomio per un breve ricovero nel 1912 della moglie Maria, in seguito guarita: ambientando la storia nello stesso luogo, riesce a trasformarlo in un luogo della memoria e, per il giovane “eroe” della storia, in un luogo surreale, quasi al di fuori del tempo e dello spazio, sospeso in un paesaggio da sogno, tra pendii innevati e borghi di montagna lontanissimi dalla pianura, da “laggiù”, dove si fatica e dove la vita di ogni giorno scorre monotona, indifferente agli incanti di “lassù”. E il giovane Hans impara a vivere nuove esperienze ed a confrontarsi con il prossimo. Parteciperà, sempre più coinvolto, a dibattiti ideologici tra il progressista e rivoluzionario Luigi Settembrini (il nome ricorda quello dell’omonimo patriota e letterato italiano) e il conservatore ebreo Leo Naphta, ex gesuita cinico e sostenitore delle pene corporali, soffrirà per la morte del cugino Joachim consunto dalla tisi, proverà le prime pene d’amore per Madame Chauchat, una bella sinuosa Chirghisa dagli occhi a mandorla, cercherà di apprendere nozioni di anatomia e fisiologia, si appassionerà di botanica, gestirà serate musicali per i ricoverati ascoltando brani di musica lirica e canzoni popolari, arbitrerà addirittura un duello alla pistola finito tragicamente, si lascerà trascinare in sedute spiritiche… I lunghi anni al sanatorio saranno una scuola di vita: non solo opportune terapie sotto la capace guida di un singolare primario e del suo aiuto, ma anche cene e pranzo luculliani e continui, cordiali rapporti con gli altri ricoverati, una congerie di personaggi rappresentanti una società in evoluzione e complessa, con le più disparate etnie e condizioni sociali (basti pensare alla distinzione, nella distribuzione dei posti a tavola, tra “russi incolti” e “russi ammodo”).
La lettura non è agevole e richiede pazienza e attenzione, anche per la traduzione efficace ma un po’ datata di Ervino Pocar. Intere pagine sono dedicate a riflessioni sul tempo (il tempo del racconto, il tempo della vita, il tempo della musica…) e sulla percezione soggettiva del suo trascorrere, sullo spazio, sul significato della vita e della morte, sulla materia, dagli atomi infinitamente piccoli alla grandiosità dell’universo… Per non citare le complesse e snervanti diatribe tra i due intellettuali già citati, l’illuminista italiano Settembrini e il gesuita Naphta, romantico e decadente, ai quali si aggiungerà nell’ultima parte del romanzo l’olandese di Giava Pieter Peeperkorn, dotato di grande “personalità”, come lo definisce Mann, estroverso e irrazionale. Veri brani di grande letteratura le descrizioni paesaggistiche, nel mutare delle stagioni, ed il racconto mirabile della prima uscita di Castorp con gli sci sui pendii innevati, ove verrà colto da una tormenta che lo costringerà a ripararsi presso un capanno: durante la sosta, colto dal sonno, avrà la visione di una assolata riviera marina con giovani figure danzanti, di templi e rovine antiche, di una spelonca ove una strega solleverà le mani lorde di sangue da un sacrificio umano… Immagini oniriche sospese tra sogno e realtà, un unicum visionario, un compendio di vita e di morte che solo lassù, nella “montagna incantata” e nella sua ambientazione rarefatta e surreale può aiutare il giovane Castorp a trovare una sua via per capire e rientrare nella vita della pianura. Ed il nostro “eroe” verrà finalmente dimesso e si ritroverà sì in pianura, ma con una divisa addosso, a lottare per la sopravvivenza nel fango e tra le macerie della prima Grande Guerra Mondiale. Ma Thomas Mann conclude con un messaggio di speranza, la stessa che traspare nei continui apprendimenti di Hans Castorp nell’asettico isolamento di Davos: come è nato per il nostro “pupillo” un sogno d’amore nel sanatorio ove le miserie umane e lo spettro della morte aleggiano, così dalla “mondiale sagra della morte” in cui si dibatte il soldato Castorp potrebbe forse sorgere un giorno l’amore.
Queste sono le impressioni di una prima lettura del romanzo. Ma, come suggerisce l’autore, va sicuramente letto una seconda volta.
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