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SYMPATHY FOR THE DEVIL
Ricordo che, quando lo lessi per la prima volta – circa venti anni fa – “Il Maestro e Margherita” mi sconcertò e mi irritò non poco. A infastidirmi era la inverosimiglianza di personaggi e situazioni (gatti che parlano, vampiri, streghe che volano nude a cavallo di una scopa), e soprattutto la grottesca e anarcoide cialtroneria (tipo film dei Fratelli Marx, per intenderci) che circonda il personaggio di Satana e del suo entourage. Il fatto è che, imbevuto di letture realistiche, non ero allora preparato a questa fantasmagorica esplosione di surrealismo, e avevo perciò completamente trascurato quello che è forse l’aspetto più importante del libro, e che l’avvicina non poco ai capolavori di un maestro dell’Ottocento come Gogol, vale a dire la satira spietata e senza esclusione di colpi della società russa del secolo scorso, o meglio di quella sua componente privilegiata rappresentata dalla élite di funzionari, intellettuali e soprattutto letterati (qui non escludo che Bulgakov abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa e ripagarsi di torti od umiliazioni subiti da parte dei suoi colleghi) che, nell’asfittico e oppressivo regime comunista dell’epoca, cerca in tutti i modi di garantirsi e di conservare sinecure e privilegi fuori della portata dei comuni cittadini. E così davanti agli occhi del lettore scorrono direttori di teatro, presidenti di commissioni, amministratori di cooperative e altri rappresentanti di un folto e indecifrabile sottobosco di circoli, sezioni e comitati, i quali costituiscono una grottesca umanità, piena di sicumera e di arroganza, avida e pronta a tutto, anche a pratiche illegali come il traffico di valuta estera, pur di assicurarsi un appartamento a Mosca o una dacia a Yalta. L’arrivo di Woland-Satana sovverte e mette a soqquadro questo ambiente, configurandosi quasi come una salutare opera di pulizia e di bonifica di tutto il marcio che alligna sotto la sua superficie apparentemente linda e rispettabile. Il diavolo quindi non sarebbe poi così malvagio bensì, come si legge in esergo, “una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. Egli in fondo non fa che titillare le più profonde passioni dell’uomo (in primis, i soldi), quasi rattristato che la grande e tragica malvagità del mondo non alberghi più nei cuori di questi patetici parassiti piccolo borghesi. La citazione del “Faust” riportata più sopra è oltremodo indicativa del fatto che “Il Maestro e Margherita” si pone consapevolmente come una sorta di parodia del poema goethiano, dal quale ricava anche il nome della sua eroina, Margherita.
Il romanzo di Bulgakov si articola in tre côté principali. Il primo, lo si è appena visto, è la narrazione fantastica degli avvenimenti provocati dall’arrivo di Woland a Mosca, del suo spettacolo di magia nera allestito nel teatro cittadino, del suo insediamento nell’appartamento 50 in via Sadovaja, fino al culmine costituito dal Grande Ballo infernale nella notte del plenilunio di primavera. Il secondo è invece la toccante storia d’amore tra Margherita e il Maestro (dietro cui si cela forse l’autore stesso, o comunque una sua proiezione ideale e simbolica utile a riflettere sul ruolo dello scrittore nella società del tempo). Il patto faustiano della giovane donna col diavolo non ha qui nulla della tragicità dell’originale, ma permette al romanzo di librarsi in una dimensione di favola ultraterrena, in cui al diavolo, saggio e benevolo, è consentito assegnare, anziché castighi infernali, una sorta di ricompensa in un sovramondo che non sarà magari il Paradiso (“Non ha meritato la luce, ha meritato il riposo”, si dice del Maestro), ma è pur tuttavia qualcosa di lontanissimo, per fare un esempio, dalla terrificante cosmogonia dantesca. Se il diavolo non è così brutto come lo si dipinge, anche Gesù non è più la figura canonica rappresentata dai vangeli. Bulgakov, nella sua terza parte del romanzo, quella gerosolimitana, sceglie di farne una figura anticonvenzionale, divina sì ma poco carismatica (è un filosofo vagabondo che, lungi dallo smuovere le folle, si limita a ispirare un solitario e preveggente discepolo, Matteo, a trasformarlo nel Cristo risorto della tradizione cristiana), e in ogni caso narrativamente marginale, rispetto a quello splendido personaggio di anima inquieta e sofferente che è Ponzio Pilato. Quest’ultimo è, nonostante il limitato numero di pagine che gli è riservato, il vero fulcro del libro. Il suo romanzo nel romanzo attraversa il racconto-testimonianza di Woland, il sogno del poeta Ivan Bezdomnji e, naturalmente, il libro scritto e poi bruciato dal Maestro, costituendo il contraltare tragico e serio alla farsesca narrazione della sarabanda infernale di Mosca. Pilato è la migliore dimostrazione della grande varietà stilistica dello scrittore russo, capace di passare con disinvoltura dai comici battibecchi tra Korovev, Behemoth e Azazello (i quali costituiscono uno spassoso capolavoro di umorismo) alla modernissima descrizione di uno spirito esulcerato e in crisi (il cui pentimento per esser stato costretto a sacrificare un innocente alla ragione di stato e la cui tormentata nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non è stato gli valgono il perdono finale decretato dal Maestro), in una summa di toni e di registri capaci di abbracciare il sublime ed il triviale, lo spirituale e il boccaccesco.
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