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IL TEMPO RITROVATO DI MRS. DALLOWAY
"Era incredibile che ci fosse la morte! – che deve finire; che nessuno al mondo saprà quanto lei avesse amato ogni cosa; quanto, ogni momento."
Tre sono i numi tutelari di Virginia Woolf: James Joyce, Thomas S. Eliot e Marcel Proust. Al primo rimanda il modo (usato ne “La signora Dalloway” con la tecnica simil-cinematografica del piano-sequenza) con cui la scrittrice interseca le traiettorie dei vari personaggi (dai protagonisti principali – Clarissa Dalloway, Septimus Warren Smith, Peter Walsh – fino a quelli che restano ai margini della storia – la signorina Kilman, lady Bruton, ecc.), seguendo senza alcuno stacco percepibile ora l’uno ora l’altro, in un tempo che oscilla tra l’oggettivo e implacabile scorrere delle ore (il titolo originale del romanzo doveva essere proprio “The hours”) e il soggettivo e frastagliato stream of consciousness; e rimanda altresì la scelta di far svolgere la vicenda nell’arco di una sola giornata, in una estrema concentrazione spazio-temporale. All’autore de “La terra desolata” la accomuna invece la capacità di conferire a momenti banali e insignificanti una valenza quasi cosmica e di trasfigurare in chiave mitica i personaggi secondari incontrati casualmente dai protagonisti nel loro deambulare (la bambinaia che diventa una visione notturna che appare a un viaggiatore in un bosco, la mendicante che assurge ad archetipo di una donna antica di milioni di anni, ecc.).
Il riferimento più importante è comunque quello di Proust, se non altro perché “La signora Dalloway” è prima di ogni altra cosa un romanzo sul tempo, declinato nelle sue coordinate di presente, passato e futuro che coesistono e si sovrappongono a vicenda. E’ a causa di questa continua commistione temporale (il “qui e ora” che si alterna senza soluzione di continuità ai flash back) che nel romanzo è sempre presente un sentimento ambivalente, ossimorico, percepibile fin dall’inizio, in una delle prime espressioni di Clarissa (“Che gioia! Che terrore!”). Sulle impressioni di apertura alla vita, di disponibilità al futuro e a ciò che esso è in grado di riservarci aleggia infatti la presenza della morte, del lutto. Clarissa percepisce la caducità delle cose e trova profondamente ingiusto che il suo mondo interiore debba scomparire senza che nessuno abbia la possibilità di conoscerlo; ma Clarissa – se così si può dire – sa elaborare il lutto, perfino il suicidio di Septimus di cui lei – grazie a un profondo senso di compassione – si sente oscuramente responsabile. Il fatto è che lei – donna tutta sensibilità – vive dell’attimo presente, ma è altresì conscia che la bellezza del momento potrà essere tale solo retrospettivamente, guardando indietro nel passato. E’ per questo che il ricevimento di Clarissa (vero centro focale del libro), pur essendo riuscito al di là di ogni più ottimistica aspettativa, provoca nella protagonista una delusione, come di qualcosa che non abbia potuto realizzarsi: il motivo è che il presente è sempre deludente, in quanto le sue risonanze intime potranno prodursi solo in un tempo successivo, quando lo sguardo della memoria potrà posarsi su quel giorno e scoprirvi con nostalgia la bellezza in esso nascosta e allora – mentre era vissuto – incapace di essere espresso. E’ questo il senso dell’apparizione inattesa di Peter Walsh e di Sally Seton, i vecchi amici di gioventù persi per strada col passare degli anni: essi sembrano venuti apposta lì alla festa – resuscitati dal passato di Bourton – per sancire la supremazia del passato sul presente, o meglio la necessità del tempo per poter comprendere il presente (che non è più presente ma, appunto, ormai passato). Questa doverosa accettazione e sublimazione del passato che contraddistingue Clarissa la distingue nettamente da Septimus, suo doppio negativo, il quale invece dal passato è annientato; ed è distrutto non tanto dalla guerra in sé, bensì dalla sua scoperta – contraria a quella di Clarissa – di non essere più capace di sentire qualcosa. La vera morte è quindi l’insensibilità, mentre la sopravvivenza è garantita dalla certezza che “quello che si sente è l’unica cosa che valeva la pena di dire”, mentre “l’intelligenza [l’erudizione shakespeariana di Septimus] era una sciocchezza”, e quello che si sente è tanto più importante in quanto arricchito dagli echi e dai riverberi del proprio passato riconciliato. Come per Proust, anche in questo caso si può ben parlare di “tempo ritrovato”.
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Grazie per questa bella recensione! :)
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