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Barriere invalicabili
Ecco un romanzo cult della letteratura nordamericana, un’opera fatta di dolore, rabbia, tenerezza e malinconia espresse in modo immediato proprio di chi ha vissuto certe situazioni e non a caso Martin Eden può essere considerato in buona parte autobiografico. La storia del marinaio poco istruito, rozzo, invitato, grazie a un occasionale piacere che ha prestato, a pranzo in una famiglia dell’alta borghesia è una di quelle che, per gli inevitabili contrasti esistenti fra i personaggi, affascina immediatamente. Martin è come un pesce fuor d’acqua che ha persino paura a muoversi; impacciato lo sarà di più conoscendo una ragazza, Ruth, figlia del padrone di casa, che per lui da subito diventa l’inarrivabile oggetto del desiderio. Lei sembra turbata, lui lo intuisce e si rende conto che per avere qualche possibilità di fare una breccia definitiva nel suo cuore deve darsi da fare, con urgenza, per colmare il divario culturale esistente. La sua forza di volontà è spaventosa in un corso accelerato che lo porterà a comprendere progressivamente il significato di libri sempre più complessi, infondendogli una sicurezza tale da pensare da poterne scrivere egli stesso, in modo che con il successo e i diritti d’autore gli sia possibile mantenere Ruth nel tenore di vita della sua classe sociale. Non vado oltre perché il piacere della lettura non sta tanto nella trama pur interessante, ma nella descrizione, superlativa, della progressiva trasformazione del rozzo marinaio. Ciò che mi preme evidenziare è il significato dell’opera, tutta incentrata su un’illusione amorosa che porta a un acceso desiderio di riscatto e di elevazione sociale. Sappiate solo che Martin diventerà un eccellente scrittore, ma la sua è la storia di un successo e insieme di un fallimento, perché l’innalzamento sociale è illusorio, portando invece a una progressiva autodistruttiva regressione. Martin, come si suol dire, diventa né carne né pesce, la velocissima istruzione lo allontanano dal mondo proletario in cui era nato e aveva vissuto la sua giovinezza e i cui valori gli diventano del tutto estranei, ma non può nemmeno accettare il corrosivo conformismo borghese, caratterizzato da una vergognosa ipocrisia. Siamo quel che siamo, ci portiamo dietro le abitudini e i valori dell’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, possiamo anche migliorare la nostra condizione, ma perché ciò avvenga, senza che perdiamo la conoscenza delle nostre radici che ci consente di impostare correttamente la nostra vita, il miglioramento deve essere necessariamente lento e progressivo; altrimenti corriamo il rischio di avventurarci in un mare in tempesta senza sapere di un porto sicuro.
Con neppure larvati riferimenti alla teoria dell’evoluzione di Darwin e con le indubbie suggestioni del Superuomo di Nietzche, Martin Eden si rivela ben più di un romanzo di assoluto valore, ma è anche una denuncia delle stratificazioni sociali, della divisioni in classi della società, comparti stagni in cui a chi sta in basso è pressoché impossibile salire più in alto.
Aggiungo una doverosa annotazione: nel romanzo c’è forse il più bel suicidio della storia della letteratura, un profondo senso di annullamento, una volontà indomita di scomparire senza lasciare traccia.
Da leggere questo che ritengo possa essere definito senza alcuna remora un capolavoro.
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