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UN IMPONENTE ROMANZO METAFORICO
“La montagna incantata” è un libro a più strati. Quello più superficiale ci mostra un romanzo dall’impianto e dallo stile inequivocabilmente realista. Esso racconta la vicenda umana di Hans Castorp il quale, recatosi a visitare per tre settimane il cugino in cura presso un sanatorio svizzero, vi rimane, per un motivo o per l’altro (l’insorgere, sia pure in forma leggera, della malattia prima e l’assuefazione alla vita agiata e protettiva della clinica successivamente), ben sette anni. La descrizione meticolosa – e appunto realistica - della vita al Berghof attraversa tutte le settecento pagine del romanzo, con una leggera vena di umorismo che mira a mettere alla berlina un universo che, chiuso e autosufficiente com’è, è in grado di diventare in breve tempo un vero e proprio surrogato della vita, tale da rendere addirittura inabili a vivere al di fuori di esso (allo stesso modo in cui uno zoo rende inetti alla sopravvivenza autonoma gli animali che esso ospita). Capitolata l’iniziale, stolida presunzione di essere diverso dalle persone che ha intorno (alla stessa stregua del Joseph K. del “Processo” kafkiano), il protagonista è costretto a subire quasi con onta la caduta in quella condizione di malato da cui si sentiva naturalmente esentato, ma, superato il primo inevitabile disorientamento, la immodificabile ritualità delle giornate di cura, fatta di misurazioni della temperatura, riposi in posizione orizzontale, brevi passeggiate all’aperto e lauti pranzi, gli diventa a tal punto congeniale da fargli perdere definitivamente ogni interesse circa la sua guarigione.
Quello della malattia (e della morte) è un tema che si arricchisce di implicazioni via via più profonde: e qui siamo al secondo strato, quello immediatamente sottostante. La malattia è per i pensionanti del Berghof quasi uno speciale segno di nobiltà, che li distingue dalla stupida gente del piano e dà loro diritto a uno stile di vita moralmente libero e disinibito, e in una delle sue lezioni sulla psicanalisi Krokowski vi intravede, sulla scia degli studi freudiani, l’espressione subconscia e liberatoria di passioni amorose e di pulsioni sessuali represse. Andando ancora più in là, Mann, con una invenzione degna del “Faust” di Goethe, promuove la malattia – a cui aveva già dedicato anni prima “Morte a Venezia” - al livello di un passaggio obbligato, non solo verso la salute e la vita, ma verso il sapere e la conoscenza (un atteggiamento simile a quello che un secolo prima Edgar Allan Poe aveva assunto nei confronti della follia). In questo senso la vita di Hans Castorp può essere letta come una storia di weltanschaung iniziatica.
Il terzo strato è costituito dall’originale trattamento riservato dallo scrittore tedesco al concetto del tempo. La scommessa è non solo quella di oggettivare il diverso valore assunto dal tempo, così come percepito dal protagonista, nelle diverse fasi della vicenda (denso e pieno nelle prime settimane di permanenza di Castorp al sanatorio, e sempre più smaterializzato, più privo di significato via via che le giornate iniziano a susseguirsi tutte uguali, con monotona e routinaria uniformità), ma anche quella di far aderire lo stesso stile narrativo a questa progressiva trasformazione, per mezzo di un cambiamento nel registro stilistico così come dell’inserimento di frequenti riflessioni dell’autore sul significato dello scorrere cronologico della vita.
Questa considerazione ci porta a considerare “La montagna incantata” alla stregua di un romanzo filosofico: i personaggi di Thomas Mann sono infatti tutti, chi più chi meno, portatori, anzi per meglio dire vere e proprie incarnazioni, delle posizioni ideologiche del tempo. Settembrini, ad esempio, l’umanista che aspira a liberare l’umanità dalla sofferenza, che ha come eroi Prometeo e Leopardi e che ammonisce Castorp a non lasciarsi vincere dall’inerzia e dallo snobistico vittimismo che impera nel sanatorio, è l’alfiere della ragione illuministica; il suo avversario Naphta è il patrocinatore dello spirito trascendente (in un paradossale connubio di gesuitismo e comunismo); Behrens è il simbolo del darwinismo scientifico e Krokowski della psicanalisi freudiana (con le sue derive irrazionaliste); e infine Mynheer Peeperkorn è l’esteta del sentimento e dei piaceri carnali. Tutti questi (e altri ancora che non ho citati per dovere di sintesi e di brevità) sono altrettanti poli entro la cui orbita viene di volta in volta attirato Castorp, inconsciamente alla ricerca di un sostituto della figura del padre che non ha mai avuto e anche – in quanto espressione dell’uomo borghese, cioè dell’uomo medio senza idee forti e potenzialmente vittima del conformismo o del fanatismo ideologico (sarebbe interessante sapere, se il romanzo non si interrompesse sulla soglia della Grande Guerra, quale posizione avrebbe assunto nei confronti della dittatura nazista) – di un valore per cui valga la pena di vivere (di qui le sue estemporanee passioni per l’anatomia, per lo sci, per la musica o per le sedute spiritiche).
La natura dei personaggi manniani (che comunque – lo ripeto a scanso di equivoci – conservano sempre un notevole spessore psicologico da grandi figure romanzesche) ci porta allo strato più profondo dell’opera, quello più squisitamente simbolico. Il sanatorio è infatti la metafora di un mondo, in specie l’impero austro-ungarico, e di un’epoca in dissoluzione. Per Mann, infatti, lo spirito del tempo, così “privo di speranze e prospettive” determina “un’azione paralizzante la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo”. Di qui il collegamento con la malattia del protagonista e degli altri ospiti del Berghof, e di qui anche il nesso, attraverso il progressivo deteriorarsi dello spirito dei pazienti (preda dei demoni della stupidità, dell’intolleranza e della violenza), con l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, di cui gli avvenimenti narrati rappresentano in chiave metaforica gli inquietanti prodromi. E’ per questi motivi che “La montagna incantata” può a buon diritto essere considerata come uno dei più grandi e affascinanti affreschi della storia dell’Europa nel primo scorcio del XX secolo.
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Lo stesso Mann in una conferenza tenuta in un'Università americana raccomandava di rileggere quest'opera.
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