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Ulisse
 
Ulisse 2018-12-17 07:34:35 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Dicembre, 2018
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L'ODISSEA DUBLINESE DI JOYCE

Ricordo di avere letto un giorno la dichiarazione, fatta tra il serio e il faceto (credo che l’autore fosse Woody Allen), che per riuscire a leggere l’”Ulisse” di Joyce bisognerebbe essere nientemeno che Dio. L’iperbolica opinione corrisponde alla fama, ampiamente condivisa dal pubblico, dell’”Ulisse” come del libro più difficile mai scritto al mondo. La cosa non è del tutto vera (nella mia esperienza di lettore posso dire di avere trovato più ostiche opere come “La morte di Virgilio” di Broch o “La terra desolata” di Eliot) e dovrebbe essere corretta se non altro perché rischia di allontanare molte persone dalla lettura di un romanzo il quale, oltre a essere un caposaldo dell’arte di tutti i tempi (anche i detrattori di Joyce non possono non convenire sul fatto che, come la pittura con gli impressionisti o la musica con Stravinskij, la letteratura moderna inizia proprio con l’”Ulisse”), è anche un libro capace di dare un notevole piacere estetico. Certo, lo stream of consciousness con cui si esprimono sovente i personaggi è indubbiamente disagevole per chi non è sufficientemente allenato, e i molteplici riferimenti culturali e intertestuali sono difficilmente comprensibili senza un adeguato supporto critico, ma in primo luogo non si può ridurre tutto il romanzo al solo flusso di coscienza (questo è l’”Ulisse” spiegato agli studenti dei nostri licei, anche se è certo la novità stilistica che risalta di più a un primo sguardo), e in secondo luogo la maggior parte delle edizioni odierne sono accompagnate da agili ed esaurienti guide alla lettura che agevolano non poco il lettore. Pertanto il tour de force con cui Joyce racconta in 740 pagine fitte fitte ventiquattr’ore della vita dei due protagonisti (a occhio e croce trenta pagine all’ora, mezza pagina a minuto) deve essere visto con meno pregiudizi, in una ottica più matura, più “umana” verrebbe da dire.
La prima cosa che mi sembra opportuno rimarcare è che l’”Ulisse” è connotato dalla mancanza di avvenimenti importanti. Se si provasse a riassumere l’intero romanzo in poche frasi ci si accorgerebbe che, nonostante la sua mole, ne è sufficiente non più di una manciata, perché, a parte l’incessante deambulare dei protagonisti per le vie di Dublino, il continuo incrociarsi delle loro traiettorie e alcuni sporadici episodi salienti (l’aggressione subita da Bloom ad opera del Cittadino, la rissa tra Stephen ubriaco e i due soldati fuori del bordello di Bella Cohen), non succede in esso nulla di memorabile, e il parallelo con l’”Odissea” omerica, poema denso di eventi e di azione, sembra messo lì apposta per essere ironicamente rovesciato, tanto è labile e risibile (là la vicenda dura venti anni, qui solo ventiquattro ore; là il protagonista è un eroe che passa attraverso mille peripezie e, rientrato in patria, riconquista la sua donna e il suo regno sconfiggendo acerrimi nemici, qui è un uomo medio, prudente e calcolatore, frustrato nelle proprie ambizioni e il cui approdo finale è un letto coniugale dove poche ore prima si è consumato un ignominioso tradimento). In “Ulisse” sull’essenziale domina l’inessenziale, sul materiale il mentale, sull’oggettivo il soggettivo (e, da un punto di vista più specificatamente narrativo, sul climax l’anticlimax). E’ questa la prima delle tante rivoluzionarie novità apportate da Joyce: la realtà esterna scompare quasi di fronte ai pensieri dei personaggi, l’univocità del mondo si dissolve davanti alla visione deformante di un occhio che è sempre meno quello dell’autore e che assomiglia invece al prismatico, caleidoscopico organo della vista di un insetto, in cui le cose si rifrangono in tanti frammenti parziali per ricomporsi faticosamente in una fragile unità fatta della sommatoria di una infinità di addendi. Conseguenza di ciò è la moltiplicazione arbitraria dei punti di vista narrativi, tanto è vero che alcuni episodi (vedi “Il Ciclope” e “Le Simplegadi”) vedono l’alternarsi di narratori del tutto secondari alla vicenda.
Leopold Bloom e Stephen Dedalus sono all’inizio, come i tanti personaggi che incrociano la loro giornata, dei meri fogli bianchi che si riempiono gradualmente di informazioni psicologiche e caratteriali, all’inizio insufficienti e poi via via sempre più esaurienti ed essenziali. Essi – e questa è la seconda grande novità dell’”Ulisse” – si costruiscono da sé, poco alla volta, a differenza dei personaggi di un romanzo tradizionale, che sono già definiti a priori all’inizio del libro e che le storie che essi vivono arricchiscono solo esteriormente, senza intaccare il loro status inalterabile, assegnato loro dall’autore una volta per tutte. L’interesse dei romanzi del passato sta nel vedere come i personaggi interagiscono reciprocamente, in relazione a quello che la storia fa loro succedere, quello dell’”Ulisse” (e dei tanti romanzi che hanno seguito i suoi insegnamenti) nel vedere come ciascun personaggio evolve a partire da un punto x della sua vita, senza che al lettore sia dato conoscere nulla di ciò che lo ha preceduto (è un po’ quello che accade nella vita quando incontriamo per la prima volta qualcuno di cui ci è sconosciuto il passato). Da questo punto di vista, lo stream of consciousness, più che un virtuosismo fine a se stesso, è un elemento fondamentale nell’architettura dell’opera, consentendo un collegamento in tempo reale con l’interiorità del personaggio e permettendo di fare a meno del contributo, spesso insopportabilmente invadente, dell’autore onnisciente e demiurgo. Il “flusso di coscienza” è un susseguirsi quasi indifferenziato di impressioni, di ricordi, di riflessioni, di cui la realtà esteriore è spesso l’origine, ma che in alcuni casi (basti pensare al grandioso monologo notturno di Molly) può fare a meno di qualsiasi contingenza esterna. Di fronte a questo “corpus” imponente, disomogeneo e apparentemente casuale di informazioni, il lettore è chiamato (ed è questa probabilmente la causa prima della scarsa popolarità dell’opera) ad una stimolante, benché faticosa, attività di selezione, filtro, decifrazione e reinterpretazione, per cercare di comporre un quadro il più possibile coerente del personaggio: insomma un comportamento ben poco passivo (se confrontato con quello a cui la vecchia narrativa lo aveva abituato), che fa del lettore quasi un secondo – e non meno determinante – autore.
Nel magma di pensieri che compaiono ondivaghi nella mente dei personaggi, è difficile, ma non impossibile trovare dei leit-motiv, delle tematiche ricorrenti. Il principale è forse quello della paternità: i due personaggi di Bloom e di Dedalus che per tutto il libro vediamo sfiorarsi, e alla fine della giornata incontrarsi e lungamente discorrere, riflettono una parallela ricerca (sia pur sfociante in un parziale insuccesso) del figlio da parte del primo (il quale anni prima aveva perso il primogenito a pochi giorni dalla nascita) e del padre da parte del secondo (in fuga dalla sua famiglia d’origine). Ma accanto a questo, altri motivi percorrono il romanzo: la morte (Bloom partecipa al funerale di un conoscente e ricorda spesso il suicidio del padre, Dedalus ha appena perso la madre), il sesso (il tradimento di Molly, le curiosità sessuali di Bloom, l’episodio di scopofilia sulla spiaggia), la religione (le considerazioni critiche nei confronti delle Chiese anglicana e cattolica da parte dell’ateo Stephen e dell’ebreo Bloom), la condizione dell’artista nella società (l’ambizione di Stephen, intellettuale spigoloso e incapace di scendere a compromessi, di scrivere un’opera memorabile e le delusioni che ne conseguono), l’Irlanda oppressa (i personaggi di Haynes e di Deasy, i ricordi di O’Connell, di Parnell e di altri patrioti irlandesi, l’episodio del “Ciclope”).
Un discorso a parte bisogna poi fare a proposito di Dublino, la città in cui è ambientato “Ulisse”: con i suoi luoghi minuziosamente citati (il libro andrebbe letto con la carta topografica davanti agli occhi per apprezzare meglio le deambulanti peregrinazioni dei suoi personaggi), con i suoi ambienti descritti con impietoso realismo, con i suoi mille personaggi che attraversano la scena magari solo per poche battute (e nel capitolo delle “Simplegadi” questo approccio assume contorni addirittura virtuosistici), la capitale irlandese appare, più ancora di Bloom e di Dedalus, il vero protagonista del romanzo, al punto che “Ulisse”, non certo per lo stile o per l’impianto narrativo ma per il consapevole utilizzo di questa caleidoscopica prospettiva, può essere considerato come un legittimo seguito di “Gente di Dublino”.
Arriviamo infine a parlare della parte più squisitamente letteraria di “Ulisse”. “Ulisse” richiama fin dal titolo l’”Odissea” e Joyce, pur in forma – come si è già visto più sopra - ironica e quasi parodistica, si è costantemente preoccupato di assegnare ad ogni episodio un equivalente omerico (in alcuni casi evidente, come nelle “Sirene” e nel “Ciclope”, in altri invece difficilmente ravvisabile, come nelle “Simplegadi” o in “Scilla e Cariddi”). Ma il parallelismo con l’”Odissea” non è l’unico, perché per esempio nel penultimo capitolo, riepilogando la giornata di Bloom, Joyce la scandisce secondo i rituali del calendario liturgico ebraico (dal sacrificio mattutino dei rognoni all’olocausto dell’alterco con il Cittadino, dal rito di Onan della masturbazione sulla spiaggia all’apocalittica visita al bordello). A queste citazioni per così dire strutturali se ne accompagnano molte altre più estemporanee, ma non meno importanti nell’economia dell’opera. L’”Ulisse” abbonda ad esempio di citazioni (dalla Bibbia e soprattutto da Shakespeare) e di riferimenti storici e letterari. Per mezzo di essi, Joyce mostra di possedere una prodigiosa consapevolezza del retroterra socio-storico-culturale della sua opera, inserendola, sia pure come elemento di rottura, in un continuum che egli fa risalire fino agli albori della letteratura. E’ emblematico a questo proposito il grandioso tour de force con cui, nelle “Mandrie del Sole”, lo scrittore ripercorre tutti gli stili che si sono avvicendati nella letteratura inglese, dal medioevo su su fino al XIX secolo, riproducendoli con virtuosistica capacità mimetica.
Il pastiche è usato con molta abilità da Joyce, che ne intuisce le potenzialità grottesche e dissacratorie. Ad esempio, tutta la prima parte di “Nausicaa” è scritta alla stregua di un romanzetto rosa, svelando impietosamente il velleitario romanticismo di cui è permeato l’adolescenziale animo di Gerty. Il culmine di questa apparentemente anacronistica operazione si ha nel “Ciclope”, in cui i fatti più o meno insignificanti che si succedono vengono contrappuntati da intermezzi dal tono solenne e serioso, di volta in volta epico, biblico, giornalistico, pseudoscientifico o notarile, o ancora facenti il verso a una conversazione galante, a un poemetto alessandrino, a una cronaca sportiva o a un romanzo d’avventure medioevale, con effetti in ogni caso fortemente parodistici. La varietà dei registri stilistici è del resto una costante di “Ulisse”, in cui ogni capitolo è profondamente diverso da tutti gli altri: in un crescendo spregiudicato e strepitoso, Joyce usa ora la narrazione tradizionale (assai poco per la verità), ora i dialoghi, ora il monologo interiore; ora struttura l’episodio alla stregua di una fuga musicale, ora nei termini di un’allucinazione fantasmagorica, ora come se si trattasse di un questionario a domanda e risposta. Il tono cambia in continuazione, ma Joyce è molto bravo a modularlo in conformità alla tipologia di ciascun episodio: in “Eolo”, ambientato nella redazione di un quotidiano, predomina la retorica giornalistica; in “Scilla e Cariddi”, che si svolge all’interno di una biblioteca, è invece la dialettica a farla da padrona; nei “Lestrigoni”, Bloom che pasteggia con il Borgogna si lascia andare a un monologo rilassato e inventivo, dove si intrecciano gola e sensualità. Anche il linguaggio si adatta alla perfezione a queste innovazioni, liberandosi completamente della sintassi ortodossa (dalla punteggiatura alla struttura grammaticale delle frasi) e concedendosi libertà prima inimmaginabili, grazie a un ampio uso di termini onomatopeici, di neologismi, di frasi spezzate, ecc. Partendo da una base tutto sommato tradizionale (i precedenti romanzi, “Dedalus” e “Gente di Dublino”), James Joyce riesce così a far compiere, nel campo della letteratura, un’autentica rivoluzione copernicana, con un’unica, epocale, ineguagliabile opera, che per grandiosità ed importanza può essere paragonata alla “Commedia” di Dante e ai capolavori omerici.

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"La signora Dalloway" di Virginia Woolf
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siti
17 Dicembre, 2018
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Bel commento , come sempre, e utile visto che nel mio comodino giace indisturbato Bloch a meno di pagina 100 e che la Signora Dalloway l'ho adorata ( c'è anche lì un suicidio...). Mi hai quasi convinto ma vorrei la continuità necessaria per leggere opere così faticose, altrimenti si rischia di frammentarle ancora di più.
Bellissimo e approfondito commento che mi vede perfettamente d'accordo.
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kafka62
18 Dicembre, 2018
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Grazie Laura. Guarda, per invogliarti, ti voglio confessare che molto spesso ho avuto paura di affrontare autori come Faulkner, Nabokov, Gaddis, Pynchon o Proust per la loro (presunta) difficoltà o (indiscutibile) lunghezza, ma quando l'ho fatto ho sempre trovato che la vera distinzione non è mai tra libri facili e libri ostici, bensì tra libri belli e libri brutti, e i libri belli (anche se a volte indubbiamente faticosi) ricompensano il lettore donandogli (qui mi vien comodo prendere in prestito la terminologia evangelica) "il centuplo". E questo credo che valga per qualsiasi piacere della vita, da una ascensione in montagna a un quartetto di Beethoven o un quadro di Picasso. E' sufficiente un po' di allenamento, un po' di tempo (neanche troppo: io ad esempio leggo in treno, durante i miei pendolaristici spostamenti giornalieri) e un bel calcio alla pigrizia, e il più è fatto.
P.S.: non vorrei averti fatto desistere definitivamente da Broch, perché per esempio l'ultimo capitolo de "La morte di Virgilio", anche se giunge alla fine di una lettura veramente stremante, è una delle pagine più strabilianti che abbia mai letto nella mia vita.
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kafka62
18 Dicembre, 2018
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Grazie Anna Maria, anch'io trovo sempre un grande piacere a leggere le tue ammirevoli recensioni.
Interessante recensione, Giulio, come sempre. Confesso di non essere riuscito a fare una lettura completa del libro. Come accade quando proprio ci si annoia, ho cominciato a saltare qualche parte e a leggerne 'in verticale' qualche altra, soffermandomi invece su pagine bellissime, 'da antologia' . E' andata così.
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siti
18 Dicembre, 2018
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No tranquillo, per me sono anche una sfida e comunque li devo affrontare per conoscenza personale. Vorrei il tempo per un'immersione totale.
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kafka62
19 Dicembre, 2018
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Grazie Emilio. Ognuno evidentemente ha i suoi autori prediletti e quelli meno amati, per non dire indigesti. Io per esempio non sono mai riuscito ad apprezzare pienamente, né tantomeno a terminare, "L'uomo senza qualità" di Musil, che pure è considerato dalla critica un indiscusso capolavoro.
Giulio, mi sorprendi! Grave mancanza: Musil, Proust, Nabokov, Faulkener...(Pynchon nemmeno io ci sono riuscita per ora, di postmoderno solo D.F. Wallace e poco DeLillo nonché Joyce che ne è il padre se non erro). Parliamo di letture importantissime che sono altrettanto belle per quanto difficili. Secondo me, per quel poco che ho visto delle tue letture e del tuo spiccato modo di analizzarle (e sicuramente la solida base culturale che dimostri) non farai grosse difficoltà e te ne appassionerai. Basta iniziarle.
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