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Un fanciullo che gioca a dadi
“E amarono gli uomini più le tenebre, che la luce”
Inizia a ritmo di valzer quanto romanzo di Dostoevskij, terso e per certi versi grottesco, a delimitare i contorni della luce, quasi che solo il cangiante contrasto degli opposti possa preparare il lettore a tanta morbosa oscurità. Se il bene più puro e diafano fallisce nella sua volontà di redimere il mondo, se lo splendore della bellezza si scopre essere un amore astratto e narcisistico, allora è il male assoluto a combattere sulla scena per conquistare l’anima dell’uomo. Dostoevskij è crudele perché condanna l’uomo alla propria infinita, rivoltante libertà e nello spazio indefinito del possibile, lo lascia precipitare tra le fauci inappellabili delle proprie responsabilità. Tutti “I demoni”, e più in generale ogni libro di Dostoevskij, non sono altro che una continua ricerca del divino e del sacro, un dialogo esasperato con il Vangelo, a comporre una mistica che ha i tratti feroci della vita e la delicata fragilità di un bambino. Tralasciando il messaggio politico del libro, che pure ne riveste una essenziale ragione, preme più di tutto analizzare la fine declinazione del male e l’esplorazione lucida che Dostoevskij compie sui suoi personaggi-idee. È nel centrale dialogo che Stavrogin, il mefistofelico protagonista del libro, sostiene con il vescovo Tychon che l’ossatura del libro emerge in tutta la sua poderosa densità concettuale.
“Oh, fossi tu freddo o caldo! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca”
IL MALE CALDO - VERCHOVENSKIJ: Verchvenskij è il fastidioso personaggio che opera concretamente il male, colui che, nella realtà, dispiega ogni tipo di crimine: qualunque incendio, furto, scandalo, omicidio si muove sulla tela ingarbugliata tramata dai suoi sotterfugi e dai suoi inganni, ma proprio perché caldo e fervente è un gradino sotto al masse assoluto. Come Don Giovanni muore perché non può essere puro spirito, così Verchovenskij fallisce perché la realtà è ostinatamente oltre il suo operare. E perché come affermerà lui stesso, sarebbe una creatura senza testa, se non ci fosse Stavrogin.
IL MALE FREDDO - KIRILLOV: Dostoevskij incarna in Kirillov la più lucida e coerente disamina dell’ateismo e a lui fa trarre le modernissime conseguenze della sua fede. Prima di Nietzsche, Kirillov affronta il vuoto orrifico che si spalanca sotto l’uomo dopo la morte di Dio, perché se Dio manca, allora tutto è possibile e l’unico modo per non restare schiacciati dal peso della necessità e dall’imperturbabile ordine del tempo, per non essere stritolati dal crepuscolo degli idoli, è farsi Creatore di un tempo che è un cerchio collassato sul centro. In Kirillov il male non è male semplicemente perché l’ateismo è un nuovo teismo, giusto un passo sotto la fede più fervida. Come avrà da dire Lou Salomé a proposito di Nietzsche, “nessuno più di lui aveva forse il senso del sacro”
IL MALE TIEPIDO - STAVROGIN: Stavrogin è il punto oscuro attorno a cui ogni personaggio ruota, colui che ha ispirato il male nel più assoluto disinteresse. Stavrogin è in questo il male assoluto, puro e genetico, oltre la realtà e prima del Paradiso, in un limbo che non è vita e non ancora morte. Il regno dell’ignavia e dell’indifferenza, l’assoluta equipollenza delle cose, perché solo in questo caotico moto il male può essere male. Il paradosso Dostoevskijano è appunto che il male, al suo massimo grado, è tiepido e quindi solo un altro accidente negli affari del mondo. Il male è tiepido perché per essere puro può solo svuotare se stesso e di Stavrogin, alla fine, non resta altro che un guscio vuoto, inane, una passione spenta.
Quello che si salva è il senso del Sacro, nella sua forma più pura. “Il sacro non è sacro perché divino, ma il divino è divino perché sacro” avrà da scrivere Heidegger un secolo dopo. Quello che si salva è il pugno di una bambina che nella sua fragilità, nella sua innocenza in frantumi, sfida il male con la sua commovente consistenza, perché oltre il dovere e oltre la volontà, la bambina semplicemente è. E c’è qualcosa di davvero divino in questo Dostoevskij, qualcosa di così crudelmente bello che resta solo da leggerlo e amarlo.
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Un decennio prima, Turgenev in "Padri e figli" aveva rappresentato la diffusione del nichelismo negli ambienti universitari con l'amara ricaduta di esso su uno dei due protagonisti del bellissimo romanzo.
Dopo un decennio, ecco la sua ulteriore degenerazione nel terrorismo. Quante riflessioni su aspetti anche della contemporaneità!
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