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Faites le jeu, messieurs! Faites le jeu, messieurs
Faites le jeu, messieurs! Rien ne va plus? È la voce del cerimonioso croupier, amico d’inferno, testimone impassibile di derive umane che oggi è sostituita dal rumore musicale delle macchine.
Mi occupo di prevenzione e nel territorio ampio di questa rimango. La riflessione psicologica e culturale che propongo non è risolutiva, precede ma non corrisponde al lavoro clinico e psicoterapeutico.
Fëdor Dostoevskij è il maestro: egli ricerca la verità assumendo come guida l’errore. Lo Scrittore russo spende la sua vita a cercarne il senso, è un moderno ed evoluto ulisse, slegato, con i sensi pericolosamente attivati e rapito dinanzi al richiamo di immortali sirene, nella possibilità di perdere. Quindi, condannato ad essere mortale e libero. Ha già vinto e con lui vince ogni essere umano nella tensione alla conoscenza e nell'affondo della coscienza turbata.
Forse, oltrepassando una tal quantità di sensazioni, l’anima non si sazia, ma ne è solo eccitata ed esige altre sensazioni, via via sempre più forti, fino allo stordimento finale. (Dostoevskij:192)
L’Autore è costretto a firmare un contratto capestro con l’editore Stellovskij e, grazie all’aiuto di Anna Grigor’evna Snitkina, la stenografa a cui detta in ventotto giorni il testo de Il giocatore, riesce a consegnare il nuovo romanzo. Non riesce, invece, ad allontanare il demone della roulette, del biliardo e delle carte. La febbre, il delirio, l’attacco isterico: ogni situazione è marchiata dal gioco e l’arbitrio del caso e la sete di rischio diventano la misura di tutto. Il processo del gioco, nelle azioni ormai convulse, si impadronisce del pensiero, della pietà verso se stessi. Lo sguardo è ipnotizzato dalla roulette che gira, gira ed in ballo non è certo "la sregolatezza russa o il modo tedesco di accumulare denaro con un lavoro onesto" (Dostoevskij:p.75)
Apprezzo la traduzione del romanzo di Serena Prina, le parole per descrivere i numerosi personaggi, cretini in modo commovente, il “servitorame ossequioso” che usa il ricatto basato sul sesso, sul denaro, sulla calunnia. Il giocatore non è mai un giocatore e basta, non è mai un semplice scommettitore, è inserito in un contesto complice e nessuno più di Dostoevskij, inseguito dai debitori, ne ha analizzato i malesseri.
"Per quanto fosse ridicolo che mi aspettassi tanto dalla roulette, mi sembra che sia ancora più ridicola l’opinione comune, da tutti riconosciuta, che sia stupido e assurdo attendersi qualche cosa dal gioco. E perché il gioco dovrebbe essere peggio di un qualsiasi altro modo di far denaro, per esempio del commercio? È vero che vince uno su cento. Ma a me che me ne importa?" (Dostoevskij:58)
"Penso che mi siano finiti tra le mani all’incirca quattrocento federici in nemmeno cinque minuti. A quel punto avrei dovuto andarmene, ma in me era germogliata una sorta di strana sensazione, una specie di sfida alla sorte, il desiderio di darle un buffetto, di mostrarle la lingua. Giocai la massima puntata consentita, quattromila fiorini, e persi. Quindi, tutto infervorato, tirai fuori tutto quello che mi era rimasto, puntai la stessa somma, e persi di nuovo, dopo di che m’allontanai dal tavolo come stordito." (Dostoevskij:72)
Il gioco d’azzardo, in fondo, è una possibilità di vedere il mondo e di provare a possederlo. Credere alla sorte, sfidare la fortuna, fregare la povertà: il giocatore vuole conquistare tutto velocemente e non comprende la curiosità e la fatica dell’opera della propria esistenza da completare attraverso un percorso più o meno difficoltoso. Vuole vincere. E perde. Ha già perso prima del risultato perché non gode. Chi si diverte, può essere che vinca e che si allontani. Il giocatore, invece, rilancia, vuole strafare e i suoi occhi sono sbarrati su un nulla che fa le capriole. La sregolatezza, all’inizio, è solo una cattiva abitudine. Spesso, in origine, non è detto che ci siano malesseri psicologici ma solo voglia di eccedere, solo esagerazioni brillanti di un bulimico di vita, di un ubriaco di sensazioni forti. Bisogna prestare attenzione e rimanere vigili perché il processo del gioco si impadronisce di chiunque. Riconosco il piacere morboso di rendersi oggetto, schiavo di un’azione ossessivo compulsiva che porta il nostro Autore ad impegnare il cappotto e i pochi gioielli della compagna. Non può che ripetere l’atto della giocata, condannandosi in una foto statica dell’eterno presente.
"Io, certo, vivo in uno stato d’ansia costante, gioco le somme più piccole e aspetto qualcosa, faccio calcoli, me ne sto per giornate intere accanto al tavolo da gioco e osservo il gioco, persino in sogno vedo il gioco, ma con tutto ciò ho l’impressione di essermi in qualche modo irrigidito, come se mi fossi impantanato in chissà che fanghiglia." (Dostoevskij: p.221)
La Kamorka è il bugigattolo, il ripostiglio, la stanzetta in cui spesso i miserabili di Dostoevskij vivono anche mentalmente. Anche il giocatore contemporaneo ha la sua Kamorka, obbligandosi a rifugiarsi nello spazio esiguo che finisce per imprigionare il corpo e la mente, nell’attesa dell’evento eccezionale, sentendosi destinato ad una quotidianità fantasmagorica, sopra le righe. Il giocatore rifiuta il confronto con la realtà, la tiene a bada, si convince che deve piegarla. Al centro del processo che sottende la giocata ci sono sempre molteplici problematiche relazionali serie e irrisolte. Senza il governo di sé, il caso si impadronisce irrimediabilmente di ogni individuo.
Considerando gli scenari raccontati, forse, la condanna odierna delle sale da gioco può diventare una beffa, esprimendo unicamente una lotta di potere fra le parti che evitano la pre-occupazione, il preoccuparsi prima, del giocatore. La legge pare contro l’imprenditore, quest’ultimo, spesso, è contro lo psicologo, la chiesa è contro il peccato, tutti si esprimono contro tutti.
Chiedo nella discussione di uscire dalla logica binaria della giocata, del vincere o perdere, della contesa, del proibizionismo per evitare il meccanismo di difesa dello spostamento. Di conseguenza, a favore del pensare assieme, desidero ampliare la prospettiva che prevede solo l'ambivalenza del torto e dell'opposta ragione. Scelgo di accogliere una teoria e una metodologia di educazione Alla persona, verso e a favore di questa che preveda il divenire, il processo di ampliamento di sé. Per la società, la persona con le fragilità e i vizi umani non può rappresentare un problema da risolvere.
L'essere umano non è solo un peccatore da redimere, un poveretto da ammaestrare, uno sciamannato da beccare ed escludere. Credo in una nuova antropologia che accompagni la maturazione benedicendo il processo spesso complesso di evoluzione che passa sia attraverso comprensioni immediate, sia attraverso apprendimenti difficili. Amplio la visuale e l'attenzione dalla chiusura, dall’allontanamento e dalla conseguente ghettizzazione delle sale da gioco alla presa in carico della prevenzione, dell'accompagnamento dell'essere vivente a diventare umano e felice non nonostante la propria fragilità, ma attraverso di essa.
L'ipotesi alla base dei miei interventi di prevenzione è che l'attrazione per il gioco compulsivo sia un derivato dello stile di vita, ancora ben radicato, maschilista e padronale, dannoso e distruttivo per gli uomini e per le donne coinvolte, il quale sciaguratamente richiede di essere vincenti, forti, ricchi, accettati, famosi a tutti i costi. La credenza errata molto diffusa è che chi ha i soldi ha il potere e che la dignità personale è legata a quanto si è capaci di guadagnare! Altrimenti si è fuori gioco! Si diventa un arrivista sfidante oppure si rimane uno sfigato senza vacanze glamour.
La salute psicologica riguarda, invece, l’accettazione di una esistenza talvolta modesta o di periodi di vita con possibilità di spesa ridotta rispetto ai desideri. Nell’attività lavorativa svolta, la persona sana accoglie anche i risultati minimi rispetto a quelli attesi. Il benessere psicologico consente di farsi carico di ciò che si è e si va diventando nella propria storia, differenti e molteplici, mai rispetto ad altri, stretti in valutazioni che nello sforzo della definizione finiscono per ingabbiare. Di conseguenza, le attività da svolgere nella prevenzione e intuisco anche nella cura, sono culturali e psicologiche assieme. Ci ammaliamo nella formazione intellettuale, oltre che nell’anima e nel corpo.
Il giocatore o la giocatrice possono divenire consapevoli dei propri stati emotivi e più forti rispetto al sintomo riuscendo a gestirlo, solo analizzando la visione di vita, il copione personale, la mentalità rispetto a se stessi, agli altri, alla vita. Vivere non significa solo guadagnarsi da vivere ed è, quindi, importante indagare il rapporto di ogni essere umano con il denaro e con il significato della parola successo.
Il processo che rende libera e autonoma una persona non prevede proibizioni, punizioni, esclusioni, valutazioni che facilitano il processo di cosificazione di sé e dell’umano. La maturazione è frutto di riflessione, di tempo trascorso presso di sé, magari con una guida nella comprensione dei sotterranei dell’anima.
"Domani, domani tutto finirà": è la chiusa del romanzo e Dostoevskij ci credette.
Al centro rimane ogni persona con la sua ricerca tormentata di una difficile felicità. La prevenzione è il tempo fra la coazione a ripetere e la strutturazione psicologica definitiva del giocatore che non si diverte più, che ha perso la gioia. Considero sacro, quel tempo, dal latino sacer, il tempo dell’essere umano che viene al mondo per creare coscienza e che chiede il sacrificio della consultazione a più voci e dell’indagine profonda.
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Commenti
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Certo, per esperienza, meglio ammalarsi di libri che di alcol, gioco d'azzardo, droghe, farmaci...
Buona lettura. Lizia
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