Dettagli Recensione
ARTE VS. VITA
Tra le molteplici suggestioni che “La morte a Venezia” offre, quella che fin dall’inizio appare predominante, informando lo spirito stesso dell’opera, è il conflitto tra l’arte e la vita. Da sempre sensibile al problema del ruolo dell’artista nella società dell’epoca, Mann ha portato ad estreme, parossistiche conseguenze, con il personaggio di Gustav Aschenbach, la rappresentazione di quella particolarissima condizione spirituale, facendola giungere ad un livello di sublimazione estetica così elevato da provocare un profondo distacco dalla realtà. Aschenbach è uno scrittore famoso e universalmente acclamato, il quale, dopo una vita condotta nel segno dell’autodisciplina, del rigore morale e della dignità, giunge, al culmine della sua maturità, ad assolutizzare il binomio forma-contegno al punto da costruire una filosofia etico-artistica fondata sull’”abbandono di ogni ambiguità morale, di ogni simpatia per l’abisso”, sul rifiuto ad un tempo della scienza e del relativismo psicologico. Questo tentativo di realizzare il “miracolo della rinata sincerità” per mezzo di un novello classicismo, impone però all’artista di obbedire ad una pratica spirituale severa ed ascetica, che è in palese opposizione alla vita, anzi è non-vita. E’ sufficiente l’inconsueto incontro con un forestiero dall’aspetto misterioso e inquietante per far sorgere improvvisamente in lui il desiderio, anzi il bisogno, di viaggiare, di interrompere la rigida routine lavorativa. Nelle pagine successive diviene chiaro il duplice significato di questa apparizione: essa è il segnale che una piccola falla si è aperta nell’edificio così faticosamente costruito, in tanti anni di autodominio, dal protagonista, l’avvertimento che il disordine delle passioni e degli istinti sta per irrompere fatalmente nella sua esistenza; e nello stesso tempo rappresenta, incarnata in quell’estraneo dall’aria feroce, dalle rughe profonde, dalle labbra troppo corte e dai denti bianchi scoperti fino alle gengive, la prima manifestazione della morte.
Nella novella si assiste a un fitto gioco di corrispondenze, di rimandi simbolici, di segni premonitori, che generano in Aschenbach l’impressione “che le cose non prendessero la piega consueta, come se una trasognata alienazione, una strana deformazione del mondo stesse per prendere il via”. Il personaggio del forestiero, ad esempio, ritorna ossessivamente, con tratti fisici addirittura uguali, nelle figure del gondoliere e del cantante, quasi che la morte intendesse inviare all’eroe indeciso funerei messaggeri dall’identico viso. E come non accorgersi di tutti quegli altri presagi che la morte, autentica protagonista del racconto, dissemina qua e là, dal nero delle gondole, che richiamano alla mente “feretri e tenebrose esequie”, al nero del panno della macchina fotografica abbandonata sulla spiaggia. Questi arcani e sibillini messaggi non tardano a far breccia nel cuore di Aschenbach. Quando egli giunge a Venezia, il suo equilibrio è già irrimediabilmente compromesso, al punto che, abbandonato mollemente sui cuscini della gondola che lo sta trasportando attraverso la laguna, si sorprende a pensare: “La traversata sarà breve. Potesse durare per sempre!”. Questo sentimento, che indica il rilassarsi della volontà morale, viene vanamente contrastato da Aschenbach. In realtà, più che ingaggiare una lotta per difendere dal disordine e dal caos la propria dignità e le proprie convinzioni etiche, Aschenbach si circonda di pretestuosi alibi per non riconoscere la resa. Quando, infatti, il bellissimo Tadzio calamita su di sé l’attenzione del protagonista, costui rifiuta inconsciamente di riconoscere la natura erotica dell’ammirazione che prova per l'adolescente, dando ad essa un carattere esclusivamente estetico e contemplativo, convincendosi anzi che quella passione ha la stessa sacra natura della creazione artistica: “Quale disciplina, quale precisione dell’idea si esprimeva in quell’organismo agile e giovanilmente perfetto! La rigida e pura volontà, tuttavia, che, oscuramente agendo, aveva potuto portare alla luce questa divina opera d’arte, non era forse nota e familiare a lui, l’artista? Non agiva forse anche in lui, quand’egli, pieno di serena passione, sprigionava dal blocco marmoreo della lingua la snella forma che aveva contemplato in spirito e che presentava agli uomini quale monumento e specchio della bellezza psichica? […] Con estatica esaltazione egli credeva di cogliere la Bellezza in sé, la Forma come pensiero divino, l’unica e pura perfezione che vive nello spirito e di cui era qui offerta all’adorazione un’immagine umana, un’allegoria lieve e leggiadra”. In Aschenbach si intravede un desiderio inconsapevole e voluttuoso di autodistruzione: così, quando, oppresso dal clima soffocante di Venezia, egli prende controvoglia la decisione di lasciare la città, non può non accogliere con soddisfazione a stento dissimulata la fatalità che, sotto forma di un errore nella spedizione del bagaglio, lo costringe a rimandare la partenza e a rimanere ancora vicino al conturbante oggetto del desiderio. Messo di fronte alla realtà della sua situazione, le fragili e inconsistenti difese innalzate da Aschenbach saltano del tutto: l’anziano letterato, perdutamente innamorato dell’efebico ragazzo, è indotto a spogliarsi di quella forma e di quel contegno che erano stati i suoi irrinunciabili parametri di riferimento per tutta la vita, assiste impotente (lui, il cultore della apollinea compostezza, della intransigenza morale) al prevalere degli istinti dionisiaci e, dissoltosi in lui qualsiasi scrupolo etico, finisce per imitare proprio quel damerino che, all’inizio del racconto, aveva suscitato in lui una grande ripugnanza. Se il suo magistero era stato, come si è visto, una rinuncia alla vita, ora che la vita erompe con prepotenza, sconvolgendo le strutture apparentemente consolidate, l'artista si scopre costituzionalmente incapace di trovare un giusto equilibrio tra il regno dello spirito e della razionalità da una parte e quello della fantasia e dei sensi dall’altra: la conclusione inevitabile del racconto è la morte del protagonista. Essa è una morte naturalisticamente rappresentata, giacché Aschenbach muore di colera, probabilmente per aver mangiato delle fragole troppo mature, ma è anche e soprattutto una morte simbolica, perché Tadzio si allontana definitivamente dalla sua esistenza.
Cercare ne “La morte a Venezia” un’unica chiave di lettura è impresa inutile, oltre che riduttiva, poiché il suo fascino si nutre essenzialmente delle molteplici e complesse interrelazioni esistenti tra i diversi leitmotiv del racconto: l’amore, la bellezza, la malattia, la morte. Estremamente seducenti, in un contesto dichiaratamente simbolico, sono i parallelismi che si creano tra la passione di Aschenbach per Tadzio e l’epidemia che scoppia a Venezia. Innanzitutto, va detto che la città lagunare viene completamente reinventata da Mann, il quale la fa essere non più (o non solo) un luogo reale ma il frutto delle proiezioni di un’intellettualità morbosa, allucinata e sull’orlo della degradazione morale. L’atmosfera che la circonda contribuisce a connotare bene le diverse fasi della vicenda e lo stato d’animo del protagonista: le acque stagnanti e putrescenti della laguna, lo scirocco soffocante e afoso, l’aria fetida e malsana che si respira lungo le calli sempre più abbandonate, sembrano la materializzazione di una indefinibile situazione spirituale, languida e neghittosa insieme. L’incubazione della malattia nella città esotica e decadente si accompagna perciò alla febbrile presa di coscienza di Aschenbach della sua passione omosessuale, così come il segreto dei veneziani che cercano di tenere i forestieri all’oscuro della pestilenza si confonde con il segreto della sua corruzione morale, che culmina nell’egoistica volontà di non mettere a parte l’ignara famiglia polacca di Tadzio dei rischi del contagio. L’allentamento dei costumi che l’epidemia provoca nella popolazione è poi l’oggettivazione della ormai inarrestabile discesa di Aschenbach verso quell’abisso che egli aveva violentemente stigmatizzato nelle sue opere e che nelle ultime pagine del racconto si estrinseca in un mostruoso sogno culminante in un’orgia dionisiaca. La malattia fisica del protagonista, come già detto, è il riflesso della sua malattia morale e decreta la definitiva sentenza che noi già conosciamo, che egli cioè è diventato preda delle selvagge forze dell’Eros. Ma la malattia e la morte non sono solo il capitolo conclusivo di un singolare itinerario spirituale, esse formano anche – e conoscendo Mann non poteva essere che così – un connubio ineluttabile con la bellezza. Osservando da vicino Tadzio, Aschenbach pensa tra sé: “«E’ molto debole, è malaticcio. Probabilmente non arriverà alla vecchiaia». E rinunciò a darsi ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo che s’accompagnava a quel pensiero”. Per l’artista, bellezza significa morte; egli, mediatore tra spirito e sensi, tra mondo eterno e mondo terreno, è portato a confondere con la morte l’oggetto della sua ammirazione, di augurarsi la corruzione fisica di ciò che ama, perché in questo è la condizione della sua sublimazione e della sua durata.
“La morte a Venezia” è un racconto di poche decine di pagine, ma racchiude tutta l’essenza dell’arte manniana. Stupiscono in essa la perfezione compositivo-architettonica e la sapienza stilistica, che forse solo in Proust hanno saputo trovare un pari sfoggio. Le sfumature delle variazioni tematiche e la ricchezza di contrappunti danno poi all’opera di Mann un fascino che si potrebbe definire musicale. Il linguaggio è solenne, paludato di classico, ricco di figure retoriche e di aggettivi e participi sostantivati: preso alla lettera potrebbe essere considerato pedante e fastidioso, ma bisogna tenere presente che Mann ha voluto di proposito scrivere il racconto nello stile imponente e sostenuto che avrebbe utilizzato Aschenbach, al fine di ottenere un effetto quasi caricaturale (si pensi alla prosopopea del secondo capitolo o ai frequenti intermezzi grecizzanti). La cosa di gran lunga migliore, a mio avviso, è rappresentata dalla densa e suggestiva trama di riferimenti simbolici che percorre da un capo all’altro la novella e che consente di superare la rigida e astratta polarità tra la ragione repressiva e la rivolta distruttrice degli istinti. Inscritta in rigorose coordinate tematiche che lasciano intuire un lungo e paziente lavoro preparatorio a tavolino piuttosto che l’immediatezza di una folgorante ispirazione, “La morte a Venezia” può sembrare a tratti un’opera fredda, raggelata dall’abbondante ricorso a virtuosismi stilistici non privi di un autocompiacimento estetizzante: ma questo è Thomas Mann, geniale e solitario epigono della decadenza, il quale ha portato nell’analisi di questo fenomeno, grazie alla fusione di calmo distacco e di passione, di freddezza critica e di liricità, un fervore davvero minuzioso.
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Personalmente, non pongo questo breve romanzo fra le opere migliori del grande scrittore tedesco. Vi trovo un gusto della decadenza, del languore che mi pare un po' enfatizzato.