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L'ESTREMO PASSO
Lev Tolstoj, nelle sue opere, ha sempre osservato la morte con una sorta di sgomenta venerazione, quasi che, divorato da una religiosa e al tempo stesso terrena curiosità, avesse voluto con le esperienze dei suoi personaggi cercare di squarciare quel terribile velo di mistero che la circonda dall’inizio dei tempi. In “Guerra e pace”, ad esempio, la morte del vecchio conte Bezuchov, ridotta dalla fatuità, dall’ipocrisia e dall’irriverenza dei parenti a un insensato e grottesco rituale, eppure ancora in grado di rivelare un alone di tragica grandezza con il suo ambiguo alludere a qualcos’altro (“All’avvicinarsi di Pierre, il conte fissò su di lui uno di quegli sguardi che nessuno può più capire: o quello sguardo non voleva dire assolutamente niente, perché fin quando si hanno gli occhi aperti bisogna pur posarlo in qualche posto, oppure, al contrario, diceva troppe cose”), e quella di Andrej Bolchonskij, assimilata a un lento e tranquillo risveglio, a un placido viaggio verso l’ignoto, sono tra le cose più significative che Tolstoj abbia scritto. E’, tuttavia, solo con un breve racconto della tarda maturità, “La morte di Ivan Ilic”, che si ha un coraggioso e decisivo approfondimento del tema. La struttura stessa del racconto depone a favore di questa considerazione. Fin dall’inizio, infatti, sappiamo che Ivan Ilic è morto: la morte perde la sua tradizionale caratteristica di sbocco narrativo, la trama (come nelle migliori opere di Kafka) non ha più nulla da svelare, e Tolstoj può perciò concentrarsi nell’analisi fenomenologica dell’argomento che gli sta tanto a cuore.
Come l’andamento circolare, a flashback, del racconto, così anche la scelta del protagonista non è casuale. Ivan Ilic è infatti una persona comunissima, un rappresentante tipico di quella classe media che fa dei principi di piacevolezza, rispetto dell’ordine e decoro i suoi comandamenti inderogabili. Rigidamente improntata a questi valori, la vita di Ivan Ilic si è sviluppata lungo i binari prevedibili e scontati della carriera professionale, del successo in società e del matrimonio, il tutto ovviamente condiviso e approvato dall’opinione pubblica. Il tono impeccabilmente “comme il faut” dell’esistenza di Ivan Ilic si riflette anche nella sua abitazione, esemplare e indistinguibile, nella quale “c’era tutto quello che escogitano le persone di un certo ceto per assomigliare a tutte le persone di quello stesso ceto”. Se a questo si aggiungono le periodiche partite a vint con i colleghi del tribunale e un orizzonte di interessi limitato esclusivamente al lavoro e agli avanzamenti di carriera, il quadro è completo.
In questa situazione di equilibrio all’apparenza immutabile fa improvvisamente la sua apparizione la morte, sotto forma di una grave malattia sopraggiunta in seguito al più banale degli incidenti. L’irruzione del caso, che qui non ha più nulla della provvidenza divina che guidava ineffabile le sorti dell’umanità in “Guerra e pace”, irride beffardamente il tentativo dell’uomo di dare al suo destino un corso ordinato e regolare. Di colpo la vita di Ivan Ilic cambia aspetto: se prima tutto era giovialità e leggerezza, ora un sentimento di grave pena si fa strada in lui. Il pensiero della malattia, che le persone intorno a lui minimizzano con egoistica indifferenza, da quel momento non lo abbandona più, insinuandosi subdolamente in tutte le attività quotidiane, anche in quelle che prima costituivano la sua ragione di vita, e se all’inizio gli stati d’animo di Ivan Ilic oscillano tra la cupa disperazione e il sollievo dei momenti in cui crede di avvertire dentro di sé un qualche miglioramento, col passare dei giorni sono i primi a prevalere, fino al momento, sconvolgente, della presa di coscienza della irreversibilità del proprio stato.
La sensazione di dover morire si presenta a Ivan Ilic con la stessa implacabile crudeltà di una sentenza inappellabile: “All’improvviso la questione gli apparve sotto una luce completamente diversa. «Macché intestino cieco! Macché rene!… è una questione di vita e… di morte. C’era la vita, e adesso se ne sta andando e io non riesco a trattenerla. E’ così. Perché ingannare se stessi? Non è forse chiaro a tutti, eccetto che a me, che sto morendo: è solo questione di settimane, di giorni… C’era la luce e adesso c’è il buio. Ero al di qua e adesso devo passare al di là! Ma al di là, dove?»”. La morte assume istintivamente la forma dell’oscurità, delle tenebre, e, freudianamente, Ivan Ilic, balzato a sedere sul letto, cerca di accendere la luce, ma con le mani tremanti fa cadere candelabro e candela sul pavimento. La reazione di Ivan Ilic è estremamente naturale, direi quasi ovvia: egli rifiuta l’idea della morte, e a maggior ragione l’idea che a morire debba essere proprio lui. Il sillogismo che aveva studiato da giovane, “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”, gli era sembrato per tutta la vita profondamente giusto, ma solo perché era un sillogismo astratto, applicabile all’uomo-Caio, cioè all’uomo in generale, ma non a lui, essere particolarissimo, così diverso da tutti gli altri esseri. Da quel buon borghese che era, Ivan Ilic aveva costruito inconsciamente una fitta ragnatela di pensieri, abitudini e formalismi per nascondere a se stesso la realtà della morte, o almeno per ridurla al rango di un irrilevante incidente di percorso di fronte all’inesauribile totalità dell’esistenza, ma ora che la morte si è insinuata dentro di lui, mettendo all’opera il suo instancabile lavoro di roditore, questi schermi di protezione saltano, diventano trasparenti e l’invocazione “a me non può succedere” diventa una patetica ammissione di impotenza nei suoi confronti.
Diretta conseguenza di quel sistema di cui, prima, Ivan Ilic stesso era, come si è visto, uno scrupoloso e fedele osservante è che la morte viene tacitamente considerata dall’ambiente che lo circonda come uno scandalo da far passare il più possibile sotto silenzio, in quanto turba illegalmente l’ordine delle cose. Questa egoistica rimozione è del tutto in linea con quella concezione tolstojana della vita la quale, parlando a proposito di “Guerra e pace”, avevo detto essere il fondamento etico del romanzo: cioè che la brama vitale, l’interesse personale e la soddisfazione dei propri impulsi naturali sono preferibili alle elevate aspirazioni spirituali e al sacrificio di se stessi. Ne “La morte di Ivan Ilic”, però, questi sentimenti hanno perso quella carica positiva che l’amore disinteressato per la vita dava loro nella grande saga tolstojana e sono diventati lo squallido controcanto di individui meschini, che accolgono la morte altrui con inconfessata gioia perché tutto questo non è successo a loro, perché loro sono ancora vivi.
Ciò che più ripugna è la menzogna con cui tutti fanno finta di nascondere a se stessi e agli altri la malattia mortale di Ivan Ilic, costringendo il malato stesso a prender parte a questo gioco ipocrita. “L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso”. Da ciò si spiega l’odio, rabbioso e profondo, che Ivan Ilic nutre nei confronti degli altri, i familiari in testa, colpevoli di lasciarlo disperatamente solo nel suo terribile sforzo di ribellarsi alla morte. Questa solitudine (“una solitudine che non avrebbe potuto essere più completa, in nessun altro luogo, né in fondo al mare, né sottoterra”) segna la impari sfida di Ivan Ilic con la morte. L’immagine del moribondo, sdraiato con la faccia verso la spalliera del divano, è l’espressione più perfetta ed agghiacciante di questa condizione senza vie d’uscita. Pur di salvarsi, Ivan Ilic si aggrappa a tutto ciò che, nella sua spaventosa impotenza, promette di dargli un’impossibile salvezza, dalla superstizione alla religione (persino nella confessione finale, ad esempio, egli ritrova una immotivata speranza di guarigione). Ma alla morte non c’è verso di sottrarsi: lei è sempre lì, ferma davanti a lui, occhi negli occhi, sfrontatamente spavalda e indicibilmente tormentosa.
Nella figura del protagonista Tolstoj opera uno splendido ribaltamento di ruoli. Ivan Ilic è un giudice, ma nella malattia è la morte a intentare un processo contro di lui. “«Cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come? Vivere come si vive in tribunale, quando l’usciere annuncia: Entra la corte!… Eccola qui la corte! Ma io non sono colpevole!» esclamò con rabbia. «E allora perché?»”. Come Josef K. nel “Processo” kafkiano, anche Ivan Ilic ripercorre a ritroso tutta la sua esistenza, tentando di trovare una risposta all’enigma della vita e della morte, magari sotto forma di un peccato che sia in grado di giustificare quel castigo. Ma nonostante che ora, agli occhi lucidi del ricordo, la vita passata gli appaia un impietoso inganno e solo nella lontana infanzia riesca a trovare qualcosa di veramente autentico e sereno, pure Ivan Ilic scaccia l’idea di non avere vissuto come doveva, in quanto egli è sicuro di aver sempre vissuto secondo le regole.
Il racconto si chiude con una potente allegoria, che richiama per intensità il famoso sogno di Andrej in “Guerra e pace”, dove il principe morente cerca con sforzi sovrumani di chiudere la porta, al di là della quale preme silenziosa la morte. Qui, invece, Ivan Ilic immagina di essere ficcato da un’invisibile potenza dentro un sacco nero, stretto e profondo; egli teme e nello stesso tempo desidera di raggiungere il fondo, ma non vi riesce, nonostante cerchi di spingere con tutte le sue forze. Questo lungo e doloroso travaglio, che richiama alla mente, con un’altra immagine freudiana, il tentativo di tornare nell’utero materno, rappresenta la lotta tra l’istinto di sopravvivenza e il potere liberatore della morte. Ad impedire questa liberazione è, più di ogni altra cosa, la menzogna, cioè l’ipocrita convinzione che la propria vita sia stata buona. Solo spogliandosi dall’inganno di una vita assurda e sbagliata (consapevolezza atroce, più dolorosa di tutte le sofferenze fisiche, perché porta con sé la coscienza che è troppo tardi per porvi rimedio), Ivan Ilic può appressarsi alla morte. Si palesa in queste pagine un fondamentale ammonimento etico: non distruggiamo ciò che ci è dato di buono alla nascita, - sembra dire Tolstoj – cerchiamo di non arrivare al punto in cui non è più possibile emendare i nostri errori; la vita è breve, non ne sprechiamo niente, ma agiamo per qualcosa che abbia un valore e un senso, per qualcosa che possa sopravviverci.
Nell’ultima ora della sua agonia, in fondo al buco nel quale Ivan Ilic si dibatte da tre giorni, si illumina all’improvviso qualcosa. All’ultimo momento, Ivan Ilic prova infatti un sentimento nuovo: il perdono. Finalmente, la paura della morte sparisce, la morte stessa sparisce. “«E’ finita!» disse qualcuno su di lui. Egli sentì quelle parole e le ripeté nel suo animo. «E’ finita la morte» disse a se stesso. «Non c’è più». Aspirò l’aria, a metà del respiro si fermò, si distese e morì”. Come si può conciliare questa consolante illuminazione finale, che libera il lettore non meno di Ivan Ilic da uno spasimo che sembrava non dovesse avere mai fine, con l’ammonimento etico espresso più sopra? Forse con la considerazione che il senso della vita sta proprio nella morte, non, si badi, nell’atto del morire, cioè nell’agonia (che Tolstoj descrive così crudamente, senza risparmiare i particolari più ripugnanti), e neppure nell’aldilà (in quanto Dio è qui completamente assente), ma in quello spazio che, come l’infanzia, è sottratto al dubbio, al rimorso e all’angoscia. L’ammonimento etico non perde per questo il suo valore, perché solo all’uomo giusto, che ha vissuto “pesantemente” la vita (come il servo Gerasimov, o il Platon Karataev di “Guerra e pace”), è concesso il diritto di morire “naturalmente”, senza quei tormenti, più morali che fisici, che assillano invece quegli uomini i quali, come il borghese Ivan Ilic, dissimulano per tutta la vita, ingannando se stessi e gli altri, il pensiero, inquietante ma necessario, della morte.
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Spero poi di riconciliarmi con la letteratura russa, con cui, per quanto mi riguarda, non c'è troppo feeling :)
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