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Ivan c'est moi.
“Un vero mattone. Esagerato. Squilibrato. Troppi dialoghi, troppo lunghi, troppo pesanti. E i personaggi? Stereotipati, alcuni. Inverosimili, molti. Come la trama. Macchiette, per lo più. E la questione della possibilità di un’etica laica? La morte del padre? I risvolti freudiani? Frantumaglia trita e ritrita! Roba vecchia, vecchissima, obsoleta. Decisamente in ritardo. E poi la narrazione racconta troppo e mostra poco. Costui non conosce la regola aurea: show, don’t tell!”
Questo potrebbe essere il commento di un lettore immaginario, che ignora il citatissimo Dostoevskij ma conosce a memoria, per averne assaggiati i frutti, i principi dei manuali di scrittura... che sono dei buoni principi, intendiamoci. Ma niente da spartire con le scienze esatte. E il Vangelo è un’altra cosa.
Il Vangelo è fondamentare nell’immaginario di Dostoevskij, senza dubbio. Così come il suo vissuto. In questo capolavoro i riflessi delle sue esperienze traumatiche risaltano nitidi. Dostoevskij che ha affrontato la morte violenta del padre. Dostoevskij condannato a morte, esiliato in Siberia, imprigionato. Dostoevskij che soffriva di epilessia. Dostoevskij e la sua fede tormentata. Dostoevskij e i Karamazov.
Non soltanto i tre fratelli che portano lo stesso cognome, ma anche il quarto fratello, quello non riconosciuto. sembrano appartenere intimamente all’unica personalità dell’autore. Perché stupirsi? Lo stesso accade, anche se in misure e modi differenti, a tutti i personaggi che vivono nei romanzi. E il padre? Quel mostro assassinato. Quel padre che non è un vero padre. “Un po’ troppo autoreferenziale” insiste il nostro lettore forte ma immaginario, che sogna di essere editor... e forse lo è.
Leggo volentieri i classici, soprattutto quando non rispettano le regole del bon ton narrativo contemporanei. Questo classico narra un mondo intero, quel mondo che ciascuno di noi possiede, ma pochi riescono a esserne tanto consapevoli da raccontarlo. Questo classico affonda la lama nei dubbi e nel chiacchiericcio che tormentano i nostri luoghi interni, eviscerando un nodo fondamentale delle nostre esistenze e della nostra società, un nodo che è diventato teso e insolubile, più che mai.
L’etica. La morale. La legalità. I rapporti tra morale laica e morale religiosa. Dostoevskij era credente. Io no. Forse somiglio un poco al secondo fratello, Ivan, quello tormentato dal suo intelletto, quello che discute con il suo diavolo interiore. L’intelletto, però, non uccide necessariamente il cuore e l’empatia, che in fondo indicano la stessa cosa, l’aspetto carnale dell’etica, quell’aspetto che i moderni studiosi di neuroscienze iniziano a esplorare adesso. Un argomento attuale, con i vip di casa nostra, che citano Aristotele a sproposito (dimenticando che l’ipse dixit è davvero obsoleto) e identificano ateismo e nazismo (dimenticando che la Chiesa aveva sottoscritto un solido accordo con la Germania nazista).
Non lasciatevi intimorire da questo capolavoro, anche se è un classico. Leggetelo, e vi perderete nella malia di dialoghi lenti e meravigliosi, molto diversi dallo scorrimento veloce dei nostri (talvolta ottimi) best seller. Vivrete in diretta un processo che neanche i migliori legal thriller (talvolta eccellenti). Incontrerete personaggi che trasmettono il calore della carne e dell’ambivalenza. Vi scontrerete contro idee diverse dalle vostre, da cui imparerete molto pur non cambiando idea. Sperimenterete la lieve pesantezza del classico, che non si legge d’un fiato come uno spumante ma si centellina come un liquore raro e prezioso. Insomma, provate. E poi, mi direte.
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Ho amato ognuno dei personaggi, ma sopratutto i bambini, descritti in modo così vero, così intenso, da sentire i loro sentimenti.
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