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Oblomov
 
Oblomov 2018-06-07 09:33:24 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    07 Giugno, 2018
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IL CAMPIONE DELL'INERZIA E DELL'APATIA

“Oblomov” è il romanzo che ha dato a Ivan Goncarov fama mondiale e, allo stesso tempo, è uno dei più ragguardevoli classici della letteratura moderna. Non tutti gli elementi della creazione di Goncarov, ad essere sinceri, hanno superato indenni il vaglio del tempo (più di centosettanta anni sono trascorsi dalla sua pubblicazione). Certo non si può sottacere, ad esempio, che il romanzo si presenti scarsamente omogeneo dal punto di vista stilistico, diviso com’è in due tronconi nettamente distinti (la prima parte presenta inequivocabilmente i caratteri peculiari del saggio fisiologico, dello studio di caratteri, mentre nelle tre parti rimanenti prevale il momento drammatico e dinamico del tema). Non può ugualmente essere passata sotto silenzio la tendenza a indulgere di quando in quando nel didascalismo o a fare affidamento su personaggi che sono null’altro che l’incarnazione di un principio dell’autore. Non mi piace affatto, poi, l’ultima parte, che trovo noiosa e dispersiva, addirittura con alcune concessioni al romanzo d’appendice, e bene ha fatto Nikita Michalkov, nella sua ottima trasposizione cinematografica, a non soffermarvisi. Per contro vanno riconosciuti a “Oblomov” e al suo autore molti punti di merito. Il realismo di Goncarov, la cura da lui minuziosamente riposta nei particolari e nei dettagli fisici, riescono a creare pagine di autentico virtuosismo narrativo. Prendiamo il primo capitolo, laddove lo scrittore descrive la camera di Oblomov. Noi non abbiamo quasi veduto l’eroe, non abbiamo sentito ancora neppure una parola dalla sua bocca, eppure lo conosciamo già dai più piccoli dettagli della sua abitazione: le ragnatele che circondano i quadri, gli specchi impolverati, le macchie sui tappeti, l’asciugamano dimenticato sul divano, il piatto lasciato sulla tavola dalla sera precedente con un osso rosicchiato, le pagine ingiallite di un libro aperto da molto tempo e da molto tempo non più letto, un calamaio dal quale “se vi si fosse intinta la penna sarebbe scappata fuori, ronzando, solo una mosca spaventata”. Goncarov non attribuisce ai particolari oggettivi una funzione decorativa ma, per così dire, li psicologizza: essi sono cioè una emanazione, un riflesso del carattere dei personaggi e contribuiscono pertanto a delinearne la psicologia. Non conosceremmo appieno la natura di Oblomov, o quella di Zachar, e di altri personaggi ancora, se non fossimo informati dei loro tratti fisici, degli abiti che indossano, dei luoghi in cui vivono. L’accumulo continuo di dettagli minimi e poco appariscenti genera, è vero, un andamento abbastanza lento, ma non ritengo che questo possa essere giudicato un difetto (perché allora bisognerebbe criticare anche Proust!). Al contrario, l’atmosfera che ne risulta è la più adatta per fare da sfondo alla vicenda di Oblomov. L’opera di Goncarov ha molti altri indubbi pregi (tra i quali voglio almeno citare il gustoso umorismo racchiuso nei battibecchi tra Zachar e il suo padrone), ma credo che se essa è giunta fino ai nostri giorni, il merito è quasi esclusivamente della irripetibile figura del suo protagonista.
Nella prima parte del romanzo, per più di cento lunghe pagine, Goncarov si sofferma nella descrizione di una qualsiasi giornata di Ilja Ilic Oblomov. Questa dilatazione della costruzione narrativa, sorprendente se si considera che in questa giornata non succede praticamente nulla, a parte i molteplici ed infruttuosi tentativi del protagonista di alzarsi dal letto, non è l’effetto di una pedantesca logorrea dello scrittore, ma ha una sua precisa giustificazione logica. Se Goncarov ritiene di dover indugiare così a lungo tra le pieghe più minute dell’esistenza interiore di questo campione della pigrizia, dell’immobilità e del sonno, è perché la sua vita è questa, e la descrizione di una delle sue mattine è la descrizione di tutte quelle che l’hanno preceduta e di tutte quelle che la seguiranno, senza alcuna speranza di un reale mutamento. Ed ecco quindi Oblomov ritratto nel momento più caratteristico della sua apatica esistenza: “Lo star disteso non era per Ilja Ilic né una necessità, come per un malato o per uno che vuol dormire, né un caso, come per chi è stanco, né un godimento, come per un fiaccone: era per lui la posizione normale”. Nel suo letto, avvolto da una comoda vestaglia da camera di foggia orientale, Oblomov può dimenticarsi del mondo che lo circonda e passare il tempo a sognare, a fantasticare, a non pensare, nella tranquillità e nell’inerzia più assolute. L’unica forma di energia che egli in qualche modo è in grado di esplicare consiste nel tener lontana da lui ogni preoccupazione, ogni novità che possa preludere ad una attività, non solo materiale ma anche spirituale. Tutto quel che accade nel mondo gli è indifferente e la sua principale aspirazione è quella di conservare la pace, di non venire disturbato nella sua angusta ma confortevole sfera, di perpetuare insomma il più a lungo possibile questo fragile equilibrio. E’ sufficiente però una lettera dell’amministratore, che dalla campagna gli scrive per comunicargli che il raccolto è stato cattivo, per gettarlo nello sconforto più totale e fargli esclamare tra i sospiri: “Ah, la vita… Ti scuote, non ti dà pace. Mi sdraierei e mi addormenterei per sempre”.
Goncarov attribuisce la causa dell’apatia di Oblomov alla sua posizione sociale e alla sua educazione familiare, e dedica un lungo capitolo, “Il sogno di Oblomov”, alla spiegazione della propria tesi. Oblomov è un signore, “possiede – secondo l’espressione dello stesso autore – Zachar e altri cento Zachar”, e come tale rappresenta il risultato sociale dell’istituzione della servitù della gleba. Fin dall’infanzia, trascorsa nel possedimento patriarcale di Oblomovka, Ilja Ilic non ha mai avuto bisogno di fare alcunché, in quanto v’era in ogni circostanza una schiera di sollecite persone pronte a servirlo. Egli, come tutti i bambini, non vedeva la necessità di starsene in ozio, spinto dalla curiosità e dall’irrequietezza tipiche dell’infanzia avrebbe voluto correre, fare, toccare, muoversi, ma la tenera premura dei genitori iperprotettivi e lo zelo dei numerosi domestici a lui preposti hanno imbrigliato questi più che naturali impulsi. “Se si mette a correre giù per la scala, o nel cortile, a un tratto dieci voci disperate risuonano dietro di lui: - Ah! ah! tenetelo, fermatelo! Cadrà, si farà male… fermo, fermo! – Se d’inverno gli viene in mente di saltar fuori in anticamera o di aprire un finestrino, di nuovo grida: - Dove vai? Com’è possibile? Non correre, non andare, non aprire; ti ammazzi, prendi un raffreddore… E Iljusa restava tristemente a casa, custodito come un fiore esotico nella serra e, come questo sotto i vetri, così anche lui cresceva lentamente e fiaccamente. Le forze che cercavano di manifestarsi si ripiegavano in dentro e deperivano, appassendo”. In questo modo Ilja non riusciva a fare niente per sé, neppure lo sforzo più leggero, ma con l’andar del tempo egli si è reso conto che essere servito e accudito in tutti i suoi bisogni era effettivamente molto più comodo e soprattutto più onorevole che non affaticarsi di persona, e da quel momento ha giudicato naturale e legittima la sua condizione (“Io non mi sono mai infilate le calze da me da che vivo, grazie a Dio”, spiegherà più tardi con enfasi al servo Zachar). L’atmosfera che si respira ad Oblomovka sembra precorrere quella futura dell’appartamento di via Gorochovaja e della casa nel quartiere di Vyborg. In questo paradiso terrestre dei proprietari fondiari regna una calma assoluta ed una sonnacchiosa infingardaggine, non accede mai nulla di rilevante ed il tempo è segnato unicamente dall’avvicendarsi delle stagioni, delle feste religiose e delle ricorrenze. “Quella brava gente non concepiva la vita altrimenti che come un ideale di tranquillità e d’inerzia, disturbata di tempo in tempo da vari casi spiacevoli, come le malattie, le perdite, le contese, e tra l’altro il lavoro. Essi sopportavano il lavoro come una punizione, che era stata inflitta già ai nostri avi, ma non lo potevano amare e sempre, ad ogni occasione, cercavano di liberarsene. Mai si agitavano per nebulose questioni spirituali o morali…”. Il clima spirituale è tale che le novità vengono guardate con sospetto e le cose sgradevoli sono evitate semplicemente rimandandole all’indomani. Date queste premesse, non possiamo stupirci che Oblomov sia diventato quell’essere passivo e inerte che conosciamo. L’acutezza dell’amico Stolz inquadra perfettamente la situazione: “Tu hai perduta la tua capacità fin dall’infanzia, ad Oblomovka, tra le zie, le balie e i servi. Hai cominciato col non saperti infilar le calze e finisci col non saper vivere”. Oblomov non può muoversi perché ci sono gli altri che si muovono per lui. Per poter agire da solo egli dovrebbe far sì che gli altri non lo prevengano, non gli spianino troppo presto la via; per questo compito si richiedono forze ben superiori a quelle di cui ha bisogno un uomo in condizioni normali, ma l’energia che Oblomov ha a disposizione non è sufficiente neppure alla semplice azione. S’intende che, più tardi, dalla rinunzia forzata nascerà inevitabilmente la rinunzia volontaria. Oblomov è quindi il prodotto di una realtà, la servitù della gleba, che, negli anni in cui il romanzo fu scritto, rappresentava per la Russia una vera e propria piaga e ne impediva ogni sviluppo sociale e spirituale.
Se il romanzo di Goncarov è giunto fino a noi come un classico intramontabile e dal fascino perennemente attuale, è evidente che la figura di Oblomov non può essere semplicemente vista come un carattere simbolico o interpretata in chiave puramente sociale e neppure letta nel segno di un riduttivo determinismo ereditario. Ciò che intriga e incanta in questo personaggio è la sua capacità di sfuggire ad ogni tipizzazione, ad ogni tentativo di circoscriverlo in un ambito troppo rigido ed esclusivo. Al contrario, esso mostra di possedere una sorprendente complessità psicologica ed una insospettata poliedricità di sentimenti. Innanzitutto, deve essere chiaro che Oblomov non è una natura ottusa, priva di aspirazioni e incapace di volere. Ciò che a lui purtroppo manca (e le ragioni ci sono già in parte note) è lo slancio vitale, quella disponibilità a lasciarsi andare con naturalezza e fiducia al flusso inarrestabile della vita. Posto di fronte all’arruffato e affannoso agitarsi degli uomini sul palcoscenico del mondo, Ilja Ilic si sente come un elemento estraneo, capitato lì quasi per sbaglio, e non riuscendo a condividerne motivazioni e intenti, decide volontariamente di chiamarsi fuori dal gioco e di rinchiudersi come una testuggine nel suo guscio. Questo isolamento non è interrotto, anzi è accresciuto, dalle visite di cortesia che alcune figure di contorno fanno, nel corso delle prime pagine, avvicendandosi in rapida successione davanti al letto di Oblomov. Questi personaggi provenienti dal mondo esterno (Volkov, Sudbinskij, Penkin, Tarantev sono i loro nomi, ma ciò non ha importanza) contribuiscono a formare degli espliciti contrasti oggettivi nei confronti di Oblomov, simboleggiando a turno l’amore per la vita di società, il carrierismo, la pedanteria intellettuale, il bieco opportunismo. All’uscita di ognuno di loro, Ilja Ilic si lascia andare tra sé ad esclamazioni del tipo: “In dieci luoghi diversi in un giorno solo, disgraziato”, “lavora da mezzogiorno alle cinque in ufficio, dalle otto a mezzogiorno a casa… disgraziato!”, “scrivere sempre, scrivere sempre, come una ruota, come una macchina… e quando fermarsi e riposare? Disgraziato”. La mia impressione è che questi fuggevoli volti che appaiono e scompaiono come dei fantasmi (si pensi ad esempio alla scena in cui “Oblomov filosofava senza accorgersi che accanto al letto stava un signore magrolino e nero nero”) altro non sono che delle idee astratte, delle creazioni della mente di Oblomov, per mezzo delle quali il nostro eroe esprime il rifiuto della negatività del mondo che lo circonda. Questo rifiuto però non acquista mai il valore di una consapevole scelta etico-esistenziale. Oblomov tende infatti a confondere il disprezzo per gli aspetti negativi del mondo col disprezzo per il mondo stesso. Quando, per esempio, espone dinanzi a Stolz la propria opinione sulla vita (“La vita: bella vita! Cosa c’è da cercar lì? Guarda un po’ qual è il centro intorno al quale si muove tutto ciò: non c’è un centro, non c’è nulla di profondo, che possa toccarti sul vivo… Un vuoto continuo avvicendarsi di giorni!”), Oblomov prende come termine di riferimento quei frivoli cicisbei che frequentano l’alta società al solo scopo di mettersi stupidamente in evidenza. Questo nondimeno è solo un aspetto del mondo, e neppure il più importante: Oblomov stesso, come si dirà tra poco, è costretto a riconoscerlo. Il suo moralismo non è in realtà supportato da una forte coscienza etica, ma appare piuttosto come una pietosa mascheratura dietro la quale egli nasconde la vergogna della propria condizione di escluso. Oblomov disdegna sinceramente e stigmatizza con toni appassionati coloro che privilegiano l’apparire all’essere: dal canto suo però, se è innegabile la sua ostinazione a non voler apparire e mettersi in mostra, è altrettanto vero che non fa nulla per riuscire ad essere. In effetti, Oblomov non è una persona arida, è capace di accendersi di trepidi entusiasmi, ma i suoi aneliti, le sue brame, hanno questa caratteristica, di essere disperatamente sterili e inconcludenti. “Egli non rimaneva estraneo alle sofferenze umane universali. Piangeva qualche volta amaramente, nel fondo dell’anima, sulle miserie dell’umanità, provava sofferenze sconosciute, indicibili, e malinconia e aspirazione verso qualcosa di lontano… Avviene anche che egli si senta pieno di disprezzo per il genere umano, per la menzogna, la calunnia, il male diffuso nel mondo, e s’infiammi del desiderio di mostrare all’uomo le sue piaghe, e a un tratto si accendono in lui pensieri che gli vanno per il capo, su e giù come onde nel mare, poi diventano propositi, gli bruciano il sangue, gli mettono in moto i muscoli; e i nervi si tendono, i propositi diventano sforzi, ed egli, mosso da una forza morale, in un momento, rapidamente cambia due o tre volte posizione, con gli occhi luccicanti si alza a sedere in mezzo al letto, tende la mano e si guarda, pieno d’ispirazione, intorno… Ecco, ecco, lo sforzo si realizza, si trasforma in atto… e allora, Signore!, quali miracoli, quali benefiche conseguenze ci sarebbe da aspettarsi da un così alto sforzo!… Ma ecco che già è balenato e passato via il mattino, già il giorno declina verso la sera, e con esso inclinano al riposo le affaticate forze di Oblomov: tempeste e agitazioni si calmano nell’anima, la testa si schiarisce dopo tanti pensieri, il sangue scorre più lentamente nelle vene. Oblomov, tranquillamente, si gira pensieroso sulla schiena, volgendo lo sguardo malinconico alla finestra…”. Ilja Ilic è pronto ad agire solo finché l’attività è un miraggio e non è immediatamente realizzabile: così egli elabora un piano di riorganizzazione della sua proprietà e se ne occupa con zelo, ma non si decide mai ad affrontare i dettagli pratici della cosa, col risultato di rimandare all’infinito la sua effettiva attuazione. I suoi desideri si manifestano in un’unica forma: “come sarebbe bello, se si facesse ciò”, ma come possa farsi, egli lo ignora. Per questo preferisce sognare e teme terribilmente l’istante in cui i sogni prenderanno contatto con la realtà, giacché, come tutti i sognatori, Oblomov percepisce in maniera molto travagliata e sofferta lo scarto che esiste tra il mondo luccicante della sua fantasia e la deludente realtà. Il principio buono e luminoso che, nonostante tutto, brilla in Oblomov è destinato quindi a rimanere infecondo: “Io sono vizzo, vecchio e logoro come un mantello usato, ma non a causa del clima, del lavoro, bensì perché per dodici anni è stata chiusa per me una luce che cercava l’uscita, ma ha bruciato soltanto la sua prigione, senza liberarsi, e si è spenta”. A questo qualcosa che tutto vince, e l’entusiasmo e la fede e, come vedremo più avanti, anche l’amore, a questa malattia spirituale che Ilja Ilic ha nelle vene, Goncarov ha voluto dare un unico, lapidario nome: oblomovismo.
A pronunciare per primo questo emblematico nome nel romanzo è Andrej Ivanyc Stolz. Stolz è il carattere diametralmente opposto ad Oblomov: egli è un uomo attivo, energico, continuamente indaffarato, corre, si muove, ogni suo pensiero diventa immediatamente aspirazione e viene messo all’opera. Il suo fattivo ideale di vita è rappresentato dal lavoro. Quando Oblomov gli chiede: “A che scopo tormentarsi tutta la vita?”, Stolz risponde senza indugio: “Per amore dello stesso lavoro e niente più. Il lavoro è l’immagine, il contenuto, l’elemento e lo scopo della vita”. Stolz non riesce purtroppo mai a convincere pienamente come carattere umano, ma appare piuttosto una figura astratta, artificiosa, un non-Oblomov tecnico (questo non perché di Stolz non veniamo mai a sapere cosa faccia realmente nella vita, di cosa si occupi, come riesca a realizzare le sue aspirazioni, ma perché egli è un personaggio esageratamente simbolico e persino didascalico nella pretesa goncaroviana di farne un’anticipazione del nuovo eroe positivo di cui la Russia aveva così tanto bisogno). Nonostante queste riserve, Stolz svolge una funzione importantissima nella vicenda spirituale di Oblomov. Egli intuisce l’intelligenza e l’integrità morale dell’amico, il suo “cuore onesto e fedele” incapace di una qualsiasi nota stonata, e per questo motivo non risparmia alcuno sforzo per svegliarlo dal suo sonno profondo e farlo vivere secondo un nuovo, più attivo, regime di vita. Ciò che mi sembra però essenziale è il fatto che Stolz rappresenta, per così dire, lo specchio nel quale, lo voglia o no, Oblomov è costretto a guardarsi, scoprendo quel che egli avrebbe potuto essere e non è stato. Questo è a mio parere l’elemento caratteristico della personalità oblomoviana ed anche ciò che la rende estremamente moderna. La semplice inerzia, la pura apatia, l’abbandono a se stessi non rappresenterebbero nulla di particolare senza questa tragica consapevolezza. “So tutto, capisco tutto – confessa mestamente Oblomov a Stolz – ma non ho né forza né volontà. Dammi la tua volontà e la tua mente e portami dove vuoi”. Stolz in questi frangenti è niente di meno che la voce della coscienza di Ilja Ilic di fronte alla quale questi non può mentire. Ma proprio mentre Oblomov, sollecitato nelle sue corde più profonde, riesce a intravedere l’esistenza di una via di salvezza, ecco affacciarsi desolatamente la coscienza della sua impraticabilità: in questa terribile aporia risiede probabilmente il punto focale del dramma di Oblomov.
Sebbene mi renda conto che il testo di Goncarov non legittimi più di tanto una simile opinione, tuttavia mi piace pensare che Oblomov, sia pure inconsapevolmente, percepisce qualcosa di più profondo della sua inettitudine a vivere. Oblomov non è chiaramente un essere avvezzo a lasciarsi tentare dalle speculazioni metafisiche, pure egli sembra intuire la disperata mancanza di senso della vita. Le domande e i dubbi che a tratti affiorano nella sua mente (“Andrej non fa che ripetere: «Lavora, lavora, come un cavallo!». A che scopo?”) possono spiegare la passività di Ilja Ilic nei termini di un nichilismo paralizzante. Se ci si convince che ogni cosa deve aver termine, che non esiste alcun ideale supremo in grado di sopravvivere alla propria morte, allora perché affaticarsi, lottare, soffrire? Tanto vale dormire e aspettare la fine. La tragicità del nichilismo di Oblomov viene poi accresciuta a dismisura dalla consapevolezza delle sue origini preistoriche, poiché atavismo è quasi un sinonimo di fatalità, e fatalità di tragedia. L’ansia di evasione regressiva mediante un ritorno all’infanzia può anch’essa essere vista, in Oblomov, come un’aspirazione all’annullamento e alla morte, oltre che come ritorno nel ventre materno. Il grande sonno di Oblomovka, che abbiamo visto in apertura, potrebbe riprodurre la quiete primigenia da cui scaturiscono tutte le cose ma fors’anche il silenzio sepolcrale che segue alla fine di ogni cosa.
Quando Olga Sergeevna entra con giovanile irruenza nella vita di Oblomov, questi è già indubitabilmente perduto; eppure a questa straordinaria fanciulla per un soffio non riesce quello che l’amico del cuore Stolz aveva nettamente fallito negli anni precedenti: la rigenerazione morale di Oblomov. Il suo amore ha lo stesso effetto dell’apparizione del sole tropicale in una landa ricoperta di ghiaccio. La vita per Oblomov torna improvvisamente a brillare con le sue magiche prospettive, riacquistando quei colori che ancora poco prima non aveva. Con tenacia e affettuosa sollecitudine, la ragazza si sforza a lungo di scuotere e risvegliare la sua mente sonnacchiosa. Non volendo credere che egli sia incapace di compiere il bene, indovinando in lui quel principio buono e luminoso da troppo tempo soffocato, Olga compie ogni sacrificio per Oblomov: incurante di tutte le convenienze, va da sola a casa di Ilja Ilic, senza dir nulla a nessuno e senza temere, come lui, di perdere la propria reputazione. Pur scosso da queste manifestazioni d’affetto, Oblomov non riesce ad andare oltre una contemplazione estatica e immobile dei propri sentimenti: alle fiammate di passione non fa seguito cioè un autentico cambiamento. Il fatto è che Oblomov non è capace di calarsi nella dimensione della realtà e, più che dalle umili manifestazioni concrete dell’amore, è affascinato dal grande gesto romantico. Tutto ciò lo si vede molto bene in un capitolo della seconda parte, il decimo, che io amo particolarmente per la finezza psicologica che l’autore vi dispiega. Convintosi nel corso di una notte insonne che quello di Olga per lui non può essere vero amore, ma “futuro amore”, mera espressione di una incosciente necessità di amore, che qualche altro uomo più ardito e brillante verrà prima o poi, fatalmente, ad occupare il suo posto, Oblomov decide di sacrificare se stesso e, scritta una lettera alla ragazza, la implora di lasciarlo. Senonché, non resistendo alla tentazione di vedere l’effetto che la lettera avrebbe prodotto su Olga, Oblomov la segue nel parco e, vedendola in lacrime, le si fa inopportunamente incontro. In un affascinante confronto dialettico in cui, con straordinaria intuizione, ella nota subito ogni elemento falso della loro relazione, Olga smonta tutte le giustificazioni di Oblomov (il quale assicurava di aver agito dimentico di se stesso, per la esclusiva felicità di lei) e smaschera il suo meschino egoismo (“Perché dunque vi siete nascosto fra i cespugli per vedere se io avrei pianto e come avrei pianto? Ecco perché! Ieri voi avevate bisogno del mio «vi amo», oggi avete avuto bisogno delle mie lacrime, e domani forse vorrete vedere come io muoio… Voi avete paura di cadere «in fondo a un abisso»; vi spaventa lo smacco futuro, se io cesserò di amarvi! «Starò male», scrivete voi… E poi dite che «prevedete la mia felicità e siete pronto a sacrificare tutto per me, perfino la vita»?… E la felicità, per la quale diventate pazzo? E queste mattinate, queste serate, questo parco, e il mio «vi amo», tutto ciò non vale nulla, non vale un sacrificio, un dolore?… Voi vedete solo buio davanti a voi; la felicità per voi non ha valore… Questa è ingratitudine, questo non è amore”). Quanta lucidità e chiarezza di pensiero racchiudono queste parole: di fronte a una simile requisitoria, Oblomov è costretto ad ammettere dentro di sé che Olga ha ragione (“Quale verità, e come è semplice!”). Oblomov non è un ipocrita, né un calcolatore. Non vi è alcun dubbio che egli agisca in perfetta buona fede, ma la mancanza di un semplice e assennato indirizzo di vita lo porta ad offrire e pretendere sacrifici assurdi (in occasione di un loro incontro chiede perfino a Olga se lo ama al punto da seguirlo fino in fondo lungo la strada della perdizione!) e a non fare invece ciò che è necessario. Olga tuttavia non abbandona subito Ilja Ilic, la propria fede è tale che ella gli offre ancora una possibilità, giungendo perfino ad accettare la sua goffa proposta di matrimonio. Di fronte al matrimonio, al quale Oblomov aveva pensato sempre e solo in maniera astratta e fiabesca, il suo grande sentimento crolla miseramente come un fragile castello di carte: “…s’era spaventato quand’era penetrato nel lato pratico del problema del matrimonio e aveva visto che questo è, certo, un passo poetico, ma nello stesso tempo anche reale e ufficiale nella vera e grave realtà e nella serie degli obblighi severi”. In breve tempo, Oblomov torna ad essere quello di prima e, approfittando di puerili pretesti (la lettera dalla campagna che non arriva, il ponte sulla Neva interrotto, una malattia inesistente), rimanda il momento di agire per concedersi ancora qualche giorno di tranquillità. Ma in fondo neppure prima, nei momenti di reciproca illusione, Oblomov aveva saputo agire, o meglio aveva agito solo in quanto una circostanza esterna lo costringeva: egli comprava la musica e i libri per Olga e leggeva ciò che la ragazza lo induceva a leggere, allo stesso modo in cui si recava in società solo quando Stolz lo obbligava. Ad Olga Oblomov è in grado di offrire solo una smisurata tenerezza ed una incontaminata bontà, ma questo non basta per legare due destini per tutta la vita, o per lo meno non può bastare a una persona in cui si agita irrequieto il soffio di una nuova esistenza: “Io ho capito da poco soltanto che ho amato in te quello che volevo fosse in te… Io amavo il futuro Oblomov. Tu sei mite, onesto, Ilja; sei tenero… come un colombo; nascondi il capo sotto l’ala e altro non vuoi; tu sei pronto a tubare tutta la vita sotto i tetti… ma io non sono così; questo per me è poco; io ho bisogno di qualche altra cosa, che cosa, non so!… Ma la tenerezza… dove non c’è!”. Le parole con le quali Olga abbandona Ilja Ilic sono dolci e piene di indulgenza, ma il verdetto è crudele e inappellabile: la desuetudine alla vita, l’apatia, la pigrizia hanno reso per sempre Oblomov meschino, egoista e incapace di amare. Pur non essendo mia intenzione nascondere la desolante nullità dell’eroe di Goncarov, non posso tuttavia condividere l’opinione del famoso critico ottocentesco Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov, il quale nel suo saggio “Che cos’è l’oblomovismo” giudicava Oblomov un essere addirittura ripugnante. C’è in questa affermazione una visione sprezzantemente manichea della vita, una insofferenza totale per tutti coloro che non portano il loro contributo alla santa causa del progresso universale. Più che al freddo e pedante Stolz, i cui interminabili discorsi con Olga e la cui cieca e illimitata fiducia nel lavoro alla fin fine stancano, la mia simpatia e la mia comprensione vanno al povero Oblomov: egli non è un colpevole da dileggiare e condannare, bensì una di quelle tenere e patetiche vittime (e non sono poche!) che la vita ogni tanto, impietosamente, lascia cadere per strada, ai nostri giorni come ai tempi della servitù della gleba, alle nostre latitudini come nella Russia degli zar.

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Una recensione interessante e acuta per un libro di bellissima scrittura che continua a mantenere il suo fascino.
Analisi molto interessante, conto di leggerlo.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
07 Giugno, 2018
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Grazie Emilio, il romanzo è sicuramente affascinante, ed anche molto attuale: basti pensare al fenomeno degli hikikomori in Giappone.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
07 Giugno, 2018
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Ciao Laura, oltre al romanzo di Goncarov ti consiglio vivamente la trasposizione cinematografica di Nikita Michalkov, che oserei definire addirittura sublime e forse addirittura superiore all'originale letterario.
Grazie, ho letto con attenzione la recensione puntuale e coinvolgente. Avevo acquistato il libro, è il momento di leggerlo
In risposta ad un precedente commento
kafka62
11 Giugno, 2018
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Grazie a te. Leggilo e vedrai che ti affezionerai al suo protagonista.
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