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SE LA TUA FACCIA È STORTA NON ACCUSARE LO SPECCHIO
“E a lungo ancora mi è predestinato da una potenza mirabile di andarmene a braccetto coi miei strani eroi, di contemplare tutta l’umana corrente della vita, di contemplarla attraverso il riso che il mondo vede e le lacrime ch’esso non scorge e non conosce”
“Se la tua faccia è storta, non accusare lo specchio”: questo vecchio adagio popolare si addice perfettamente all’arte di Nikolaj Vasilevic Gogol, al punto che egli stesso volle porlo come epigrafe alla commedia “L'ispettore generale”. Cos’ha fatto, del resto, Gogol nelle sue opere se non riprodurre, instancabilmente, le facce storte della realtà, realizzando alla fine una galleria di ritratti umani che non ha eguali nella letteratura moderna? Il gusto di effigiare gli esseri umani con una curiosità da entomologo e una carica grottescamente dissacratoria, che costituisce il tratto più caratteristico di questo importante scrittore russo, si ritrova soprattutto ne “Le anime morte”, il suo capolavoro indiscusso.
In questo “poema in prosa”, come amava definirlo lo stesso Gogol, c’è un protagonista, Pavel Ivanovic Cicikov, e c’è una trama, che ruota intorno al suo piano di comprare sottocosto “anime morte”, vale a dire contadini deceduti dopo l’ultimo censimento ma che fino al successivo verranno considerati legalmente e fiscalmente vivi, per poi ottenere crediti bancari, ipotecando questa apparente e fasulla ricchezza. Non mi risulta però azzardato ritenere che, in queste pagine, protagonista e trama sono, paradossalmente, secondari, o, se si vuole, strumentali rispetto allo scopo principale dell’opera, che è quello di percorrere città e campagne della Russia per rintracciare i più svariati esemplari di un’umanità bizzarra e inconsueta, percorsa da un soffio di risibile follia. Di Cicikov, ad esempio, ci è dato inizialmente di sapere solo che è “un signore non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso, né troppo magro; non si poteva dire che fosse vecchio, ma nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non fece nessunissima impressione in città”. Del resto, cioè della sua vita, delle sue esperienze e dei suoi propositi, Gogol non si preoccupa minimamente, se non alla fine della prima parte del romanzo (che è poi l’unica artisticamente compiuta), quando ormai il senso del libro è ormai palese.
“Le avventure di Cicikov” è quindi un sottotitolo ingannatore: egli è uno dei tanti personaggi che popolano il romanzo, è fatto della loro stessa sostanza, anche se la sua ironicamente sfumata presentazione è sufficiente a designarlo come “uomo senza qualità”, adattissimo quindi a rivestire il ruolo di involontario portavoce dell’autore. Questo piccolo borghese che ama la rispettabilità e l’acqua di colonia più di ogni altra cosa al mondo, che colpisce più per la sua assenza di personalità che per la sua immoralità, è quindi soprattutto un pretesto per poter studiare da vicino un campionario umano estremamente vario e mutevole, anche se riconducibile in ultima analisi a gradi diversi di nullità esistenziale. Si sviluppa così, minuziosamente ritratta, una lunga teoria di “persone rispettabili sotto ogni aspetto”, nella satirica e sottilmente corrosiva descrizione delle quali Gogol si rivela un autentico e geniale maestro.
Il primo personaggio che incontriamo è Manilov, appartenente a quel genere di “gente così così, né carne né pesce”. Quando entriamo a casa sua ci sembra di respirare la stessa aria dell’appartamento di via Gorochovaja di goncaroviana memoria (“Nel suo gabinetto giaceva sempre un libriccino, con un segno infilato a pagina 14, ch'egli leggeva continuamente già da due anni”) e di Oblomov ritroviamo anche il sognante velleitarismo (“Qualche volta, guardando dalla scaletta d’ingresso verso il cortile e lo stagno, diceva che sarebbe stato bene fare subito un sotterraneo che dalla casa conducesse laggiù, o costruire un ponte di pietra sopra lo stagno. […] Nel dir questo gli occhi gli si facevano dolci dolci, e il suo viso prendeva un’espressione soddisfatta. Del resto tutti questi progetti si compivano solo a parole”). Dietro al suo atteggiamento untuosamente cordiale e al suo sentimentalismo sdolcinato non è difficile scorgere un senso di vuotaggine e di mal dissimulata volgarità.
Dopo di lui facciamo conoscenza con l’ottusa e pedante Korobocka, meschina e spiritualmente limitata, superstiziosa al punto di credere che il diavolo si intromette nelle faccende umane, ed anche stupida, ma non tanto da non vedere che nella richiesta di Cicikov di cedergli le “anime morte” c’è un vero e proprio imbroglio.
Alla vecchia e antiquata proprietaria fanno seguito Nozdrev, vero e proprio esempio di parassita sociale, bugiardo e infingardo, privo di amor proprio, ma sempre alla ricerca di un’attività (sia essa quella del giocatore o dello scandalista) per riempire l’esistenza quotidiana; e ancora il grossolano e misantropo Sobakevic, furbo e imbroglione, che pretende di giudicare gli altri in base a principi morali che per lui non esistono; e infine Pljuskin, psicopaticamente avaro, al punto da vivere in un selvatico e degradante abbandono.
Al fianco di questi meschini rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria vi è poi tutta una folla di funzionari cittadini, dal presidente del tribunale al governatore, dal capo della polizia al procuratore, nella descrizione della quale Gogol raggiunge forse le vette più alte della sua arte. L’autore deride la loro ossequiosa bonomia, la loro irresolutezza, l’ipocrisia e lo snobismo delle loro mogli, ma lo fa sempre in punta di penna, senza mai calcare la mano. Così, quando parla della corruzione negli uffici pubblici, Gogol non esprime astio, ma un eccezionale e divertito senso dell’umorismo. Si prenda ad esempio il seguente aneddoto: “Si formò una commissione per la costruzione di un edificio governativo molto importante. […] La commissione si mise immediatamente all’opera. Per sei anni s’affacendò intorno alla costruzione; ma sia che il clima fosse poco propizio, sia che il materiale fosse poco adatto, il fatto è che l’edificio governativo non arrivò mai più su delle fondamenta. Ma intanto agli estremi della città sorse per ciascuno dei commissari una bella casa di architettura borghese: evidentemente lì il terreno era migliore”. Altrettanto spassosa è la girandola di equivoci che il misterioso affare di Cicikov, con le sue molteplici allusioni, ingenera nei notabili della città, gettandoli nella più assoluta costernazione e facendo esplodere i loro terribili complessi di colpa, rimossi da tempo con troppa leggerezza. Alla fine, essi non riescono più a capire se Cicikov sia “un uomo che bisognava acciuffare e arrestare come uno di cattive intenzioni, o un uomo tale che poteva egli stesso acciuffare e arrestare tutti loro come gente malintenzionata”. Sebbene la satira gogoliana non implichi mai un’esplicita condanna, sotto il profilo morale, dell’oggetto rappresentato, pure essa è in grado di far emergere con marcata evidenza il vizio comune a tutti i personaggi de “Le anime morte”: la “volgarità soddisfatta di sé”.
E’ evidente che questi personaggi, pur essendo descritti in maniera grottesca e tipizzata, non sono delle semplici maschere, delle caricature fini a se stesse, ma sono profondamente legati all’ambiente e alla realtà. E’ in questo senso che si può parlare di un Gogol realista, di un Gogol finissimo cesellatore di una realtà sociale, e non solamente umana. Gli oggetti che circondano i personaggi e ricalcano i tratti grotteschi di costoro hanno ad esempio una importante funzione semiotica: quando Gogol descrive le cuffie ridicole delle dame provinciali, il calesse a forma di cocomero e l'orologio sibilante della Korobocka, le sedie a forma d'orso di Sobakevic, la tabacchiera di Petrovic (ne “Il cappotto”), col pezzetto di carta al posto della faccia di generale sfondata con un dito, egli non lo fa con intenti puramente comici. La sensazione che si ricava da queste pagine è infatti quella di non riuscire più a distinguere gli uomini dalle cose, come nel caso della stanza di Pljuskin, collezionista di oggetti inutili e di stracci. La “reificazione” dei personaggi gogoliani legittima a mio avviso la tesi secondo cui le vere anime morte sono proprio loro, patetiche espressioni di una Russia squallida e corrotta, ma pur sempre in grado di ispirare all’autore liriche digressioni, come quella famosa della trojka, che chiude la prima parte del romanzo.
Come ho già detto, ne “Le anime morte” non c’è un intento prioritariamente moralistico. L’indagine sottilmente satirica delle tipologie umane e dei comportamenti sociali non è infatti rivolta tanto a criticare la concussione o la servitù della gleba o le molteplici tare sociali, quanto a trasmettere una sensazione di vuoto e di malinconia: tutti quei personaggi, tenacemente avvinghiati al loro potere e al loro benessere personale, risultano alla fine essere null’altro che delle patetiche vittime della vita.